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I bombardamenti dei "liberatori" in Italia, come ci hanno massacrati i nostri nemici di ieri e di oggi

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Anton Hanga
icon13  view post Posted on 17/2/2008, 14:55




I BOMBARDAMENTI DEI "LIBERATORI"
a cura di Mauro Franciolini


1942
Le incursioni sulle nostre città furono compiute prevalentemente dopo
l'8 settembre 1943 e cioè quando l'Italia era virtualmente "alleata"
con gli anglo-americani.
I primi attacchi leggeri si ebbero sul meridione d'Italia per opera
della R.A.F. con base sull'isola di Malta.
Le prime dure incursioni su Napoli furono effettuate dall'U.S.A. A.F.
il 4 e l'11 dicembre: si trattò anche delle prime incursioni dei
bombardieri americani sull'Italia. Le città maggiormente colpite
furono Torino, Milano e Genova: attacchi pesanti, ma non come quelli
dell'agosto dell'anno dopo. I bombardamenti sul "triangolo
industriale" furono organizzati dal "Bomber Command" della R.A.F.
durante la cosiddetta "offensiva di autunno". Milano subì un solo
bombardamento fra il 24 ed il 25 ottobre: 470 furono gli edifici
distrutti.
Fra l'ottobre/novembre Genova fu colpita 6 volte: 1.250 edifici di
vario genere furono distrutti. Fra il novembre/dicembre Torino subì 7
bombardamenti: 142 ettari distrutti di superficie edificate (70
fabbriche, 24 edifici pubblici, e circa 1.950 abitazioni).
L'incursione più violenta fu quella della sera del 9 dicembre su
Torino: 196 apparecchi scaricarono sulla città 147 tonnellate di bombe
e 256 tonnellate di spezzoni incendiari.
Gli inglesi impiegarono complessivamente 1.811 aerei di cui 1.477
attaccarono le città italiane scaricandovi circa 2.740 tonnellate di
bombe e perdendo 31 aerei. Le vittime furono circa 1.300

1943
La caduta di Mussolini in seguito agli avvenimenti del 25 luglio aveva
generato in molti italiani l'illusione che anche la guerra dovesse
cessare, risparmiando ulteriori lutti e distruzioni. Illusione svanita
subito nella notte fra il 7 e l'8 agosto 1943 quando, Milano, Torino e
Genova, subirono il contemporaneo e duro attacco della R.A.F. In
quella notte, 201 tonnellate di bombe esplosive e spezzoni incendiari
si riversarono su Milano, 195 tonnellate su Torino e 169 su Genova.
Queste incursioni non dovevano rappresentare che un "assaggio" di
quanto sarebbe successo nei mesi successivi.
L'11 agosto un massiccio bombardamento devastò la città di Terni
seppellendo sotto le macerie centinaia di vittime. Il 13 agosto anche
Roma, appena dichiarata "città aperta", fu violata da circa 500
tonnellate di bombe americane che provocarono circa 2.000 morti e
notevoli danni.
La notte del 13 agosto su Torino caddero 244 tonnellate di bombe e, la
notte del 17 agosto, altre 248 tonnellate. Milano, 12 / 16 agosto
1943: Il più feroce attacco che mai avesse subito, sino a quel
momento, una città italiana fu quello su Milano nella notte fra il 12
e il 13 agosto: 504 bombardieri inglesi rovesciarono sulla città 1.252
tonnellate di bombe e spezzoni incendiari. Due giorni dopo, nella
notte del 15 agosto, 140 bombardieri inglesi scaricarono altre 415
tonnellate di esplosivi. Non era ancora finita: nella notte del 16
agosto si presentarono nel cielo della città 199 bombardieri che
scaricarono altre 601 tonnellate di ordigni mortali. In quattro giorni
Milano fu martirizzata da 2.268 tonnellate di bombe sganciate da 843
aerei della R.A.F. inglese. Il bilancio finale fu drammatico: 239
industrie colpite, distrutte o gravemente danneggiate, 11.700 edifici
abbattuti, più di 15.000 quelli danneggiati, le centrali elettriche
irreparabilmente bloccate, la rete di trasporti e di comunicazioni
quasi totalmente inservibili, centinaia i morti.
In quella prima metà di agosto 1943 caddero dunque sui centri
principali dell'Italia settentrionale 3.325 tonnellate di esplosivo.
Il 28 agosto furono poi bombardate Taranto, Cosenza e, a seguire,
Novara, Foggia, Salerno, Crotone, Viterbo, Avellino, Lecce, Bari,
Orte, Cagliari, Carbonia, Civitavecchia, Benevento. Frascati fu rasa
al suolo e migliaia furono i morti. Il 1 settembre 1943 fu distrutta
Pescara, città completamente priva di difesa antiaerea.
Il "Bomber Command" della R.A.F. ed i bombardamenti sull'Italia
Nel 1973 il "Public Record Office" di Londra rese pubblici i documenti
relativi ai bombardamenti inglesi sull'Italia. Queste notizie,
attestate in modo incontestabile dalle autorità inglesi, portarono a
conoscenza di un piano a lunga scadenza, elaborato nei minimi
particolari, che avrebbe previsto un diluvio di fuoco sull'Italia.
Secondo tale progetto, gli anglo-americani avrebbero dovuto scaricare
sull'Italia del nord, in un periodo compreso fra il settembre 1943 e
il febbraio 1944 qualcosa come 45.000 tonnellate di esplosivo! Nella
serie di tali documenti, corredati da numerose mappe raffiguranti gli
obiettivi principali, fa spicco un eloquente messaggio inviato dal
direttore delle "Operazioni di bombardamento", Commodoro Bufton, al
direttore dei "Piani di bombardamento", Commodoro Elliot. Nello
scritto, che reca la data del 29 luglio 1943, si legge anche:
"Stabilita l'opportunità di attaccare l'Italia, ci proponiamo di
trasportare sugli obiettivi del Nord circa 3.000 tonnellate di bombe
nel mese di agosto, 8.000 tonnellate nei mesi di settembre e di
ottobre e 6.500 tonnellate in ciascuno dei mesi invernali, se le
condizioni atmosferiche saranno favorevoli...". I bombardamenti
dell'agosto 1943 non furono quindi solo "avvertimenti" o "pungoli" per
accelerare la firma di una resa, ma rientravano in un piano
programmato che, come per numerose città tedesche, prevedeva la totale
distruzione dei centri vitali della nazione mediante il sistema dei
cosiddetti bombardamenti "a tappeto".
Negli ultimi tre mesi del 1943 i bombardamenti terroristici
anglo-americani provocarono 6.500 morti e circa 11.000 feriti,
distruggendo e danneggiando migliaia di edifici.

1944
Furono migliaia e non risparmiarono nessuna città. Solo nel 1944, gli
anglo-americani effettuarono sull'Italia centro-settentrionale,
territorio della RSI, 4.541 incursioni, uccidendo 22.000 civili e
ferendone oltre 36.000. Ci fu una vera e propria "escalation" di
terrificanti incursioni che non risparmiarono nessuna città e che
raggiunsero una frequenza quasi quotidiana. Firenze, per esempio, subì
7 bombardamenti (di cui 5 massicci) che causarono oltre 700 morti,
migliaia di feriti e la distruzione di migliaia di case, oltre che
danni gravissimi al patrimonio artistico della città. Molte furono le
incursioni anglo-americane particolarmente odiose e criminali.
Bisognerebbe ricordarle tutte ma, a titolo di esempio, valgano queste:
Il martirio di Treviso: La città fu selvaggiamente aggredita il giorno
di Venerdì Santo e fu distrutta da un violento bombardamento che costò
la vita a 4.000 abitanti.
I "liberatori" sul Lago Maggiore: Il 25 settembre, due aerei inglesi
sganciarono un grappolo di bombe su un gruppo di case di Intra
provocando 11 morti e numerosi feriti. Poco dopo, gli stessi aerei
mitragliarono il battello "Genova" di fronte a Baveno sul Lago
Maggiore. Il battello colpito, che aveva a bordo solo civili (in
prevalenza donne e bambini), prese fuoco: molti furono i morti ed i
feriti.
Il 26 settembre, aerei inglesi (probabilmente gli stessi del giorno
prima) attaccarono il battello "Milano" carico di sfollati che si
erano imbarcati a Laveno per raggiungere la sponda piemontese del
lago. A bordo c'era anche un reparto del battaglione "M" Venezia
Giulia che stava tornando alla scuola di Varese della G.n.r.: dieci di
loro perirono nell'attacco.
L'ecatombe dell'Impruneta Il 27 luglio, aerei della Quinta squadriglia
del 239° stormo, appartenenti alla "Desert Air Force" (Daf),
bombardarono "a tappeto" l'Impruneta. Il paese era affollato soltanto
da civili inermi che speravano di aver trovato un rifugio sicuro dalle
incursioni alleate. La maggior parte dei rifugiati morì sotto le bombe
dei "liberatori", mentre i superstiti furono falciati dalle
mitragliatrici dei "Kittyhawks" sudafricani. Il 28 luglio, un'altra
incursione si scatenò contro la basilica del paese: si salvò solo il
ritratto della Madonna.
La strage degli innocenti
Il 10 ottobre sul rione popolare di Gorla (Milano) una bomba americana
centrò in pieno una scuola: i bambini uccisi furono oltre 200.
Accurati studi di storici militari hanno dimostrato con certezza che
non si trattò di un errore. Per questo crimine immondo il governo
americano non ha neppure chiesto scusa.

Articolo tratto dal Quotidiano RINASCITA del 30 Marzo 2001


20 Ottobre 1944: la strage degli innocenti

Ricordiamo i piccoli caduti di Gorla


Esiste, a Milano, una collinetta artificiale, denominata Monte Stella,
costruita con oltre un milione di quintali di macerie, recuperate da
tutti i settori della città rasi al suolo dai bombardamenti
terroristici anglo-americani. Una parte di dette macerie proviene
dalla distruzione di due istituti scolastici superiori, di sei scuole
elementari e cinque materne completamente atterrati, ma anche da altri
trentacinque edifici scolastici danneggiati in città, mentre altre
centoventicinque scuole, di ogni ordine e grado, vennero distrutte in
provincia. Fra le scuole elementari distrutte, una è particolarmente
ricordata dai milanesi, quelli meno giovani, quelli che la guerra
l'hanno vissuta nella metropoli, ed è la scuola di Gorla, della quale
vogliamo ricordare la triste sorte.
Era una giornata limpida, tersa, allora non c'era lo smog, e
-incredibile a dirsi- dalla piazza del Duomo si riusciva a vedere la
cerchia delle Alpi, quella del 20 ottobre 1944, allorché una
formazione di circa quaranta quadrimotori americani del tipo B 24 e B
27 comparve nel cielo della città, contemporaneamente al suono delle
sirene d'allarme. E sulla verticale di Gorla, che allora era un
sobborgo periferico e non un quartiere incorporato nella città come
oggi, gli aerei sganciarono il loro carico. Puro terrorismo, volontà
di inserire su un popolo ormai in ginocchio, nonostante ancora oggi ci
sia chi sostiene la tesi che le bombe erano destinate alla stazione
ferroviaria di Greco, che si trova in zona, ma che era facilmente
identificabile, ed anche attaccabile senza pericolo, data
l'inesistenza di ogni reazione da parte della caccia italo-germanica.
Nella zona attaccata si contarono 635 Vittime, o almeno furono
recuperati 635 corpi, forse potevano esserci stati altri esseri umani
che, letteralmente dilaniati dalle esplosioni, non vennero mai
rinvenuti. Fra gli edifici centrati in quella tragica mattina ci fu la
scuola elementare Francesco Crispi: fu letteralmente polverizzata.
Oltre duecento bambini, la loro direttrice, quattordici maestre,
un'assistente sanitaria e quattro bidelli furono travolti. Quattro
soli bambini, una femminuccia e tre maschietti (Annamaria, Giuseppe,
Remo e Gabriele) si salvarono e furono estratti dalle macerie.
Occorsero tre giorni per ritrovare e recuperare i corpi delle vittime
della scuola, tre giorni in cui Vigili del Fuoco, militari
dell'U.N.P.A., soldati italiani e tedeschi, uomini della G.N.R. e
operai in tuta, magari partigiani, certamente antifascisti, lavorarono
fianco a fianco, senza risparmiarsi, unitamente ai genitori dei
bambini, ed ai parenti, disperati, ma sempre speranzosi,
nell'illusione di trovare qualche superstite. Chi lavorava e piangeva,
chi lavorava e pregava, chi malediceva e bestemmiava Dio, che aveva
permesso una strage di bambini senza colpa né pena.
Oggi, al posto della scuola, sorge un monumento funebre, una madre con
un bimbo in braccio, inginocchiata, come se offrisse al Cielo quella
sua creatura, e sotto al monumento c'è l'Ossario, dove sono conservati
i resti dei piccoli Caduti, e degli adulti che erano con loro*. Ogni
anno, una piccola cerimonia celebrativa riunisce chi non ha
dimenticato; sono presenti le Autorità locali ma nessun papavero, sino
ad oggi, è venuto mai da Roma, nessun politicante della prima
repubblica ha mai partecipato ufficialmente.
Non occorre chiedere il perché quei morticini sono scomodi, hanno
avuto il grande torto di farsi assassinare dagli Alleati liberatori e
non dai biechi oppressori nazifascisti!

fonte: Revisionismo.com (2002)

per le immagini della strage e l'elenco delle vittime, si vedano i
segg. siti:
http://cronologia.leonardo.it/mondo35c.htm
http://cronologia.leonardo.it/mondo35e.htm
http://www.piccolimartiri.it/

(si noti l'ipocrisia della lapide commemorativa, la quale, come tutte
quelle del genere in Italia, addebita la responsabilità della strage
ad una vaga "guerra", senza fare il nome degli Stati Uniti).


GLI "ALLEATI"? VA BENE, MA DI CHI ?
I BOMBARDAMENTI DI TREVISO IL TRAGICO VENERDI SANTO (7 aprile 1944)


Trascritto dal cyberamanuense Bruno Fanton in ricordo delle vittime
innocenti, e per indicare alle nuove generazioni modi alternativi di
studiare la storia.

Avevano avuto assegnazione in città e nella periferia gli uffici
del ministero dell'Agricoltura del governo della R.S.I., e ciò aveva
comportato un notevole aumento delle presenze nel Comune di Treviso.
Al seguito dei dipendenti di tale ministero erano giunte molte
famiglie, ed anche il contingente di militari si accrebbe notevolmente.
Nei primi giorni di aprile vennero febbrilmente scavate parecchie
postazioni d'artiglieria contraerea, formando una cintura a
quattro-cinque chilometri dalla città; le batterie erano tedesche (con
evidente comando germanico) e il personale ai pezzi prevalentemente
italiano. Quando, nel corso degli allarmi, appariva qualche caccia
avversario, erano guai per la popolazione perchè le schegge dei
proiettili venivano a cadere anche nelle zone cui affluiva la gente
all'uscita dalla Città; era quindi consigliabile rimanere in casa o
recarsi sveltamente ai rifugi che, almeno per questo pericolo, erano
sufficientemente resistenti.
Ecco perchè il 7 aprile la popolazione venne in gran parte
sorpresa entro le mura cittadine.
Mancava poco alle 13 quando le sirene urlarono al pericolo
incombente, e molti lasciarono le case per recarsi al rifugio. Gruppi
di aerei da caccia sorvolarono la città dopo pochi minuti e le schegge
dei proiettili dei cannoni antiaerei già fischiavano nella loro
caduta. Suggerita da un presentimento, mia madre volle superare il
ricovero di via D'Annunzio ove ci si recava abitualmente per riparare
in quello che sorgeva in via Cesare Battisti (nell'area ora occupata
dalla sede dell'INAIL), e lì vedemmo arrivare quei dannati
bombardieri, in formazione perfetta e compatta, argentei come pesci in
spensierata vacanza, alti per evitare il più possibile il tiro delle
artiglierie che gli facevano fiorire tutt'intorno piccole nuvole
provocate dagli scoppi, ed alti anche per l'evidente noncuranza di
ricercare gli obiettivi che potessero avere una certa importanza
militare.
Vedemmo i primi grappoli di bombe e si udirono le prime esplosioni
provenienti dai sobborghi di S. Antonino e di S. Lazzaro. Ci
precipitammo entro il rifugio quando lo schianto avvolse tutta la
città; lo spostamento violentissimo dell'aria ci sbatteva addosso
togliendo il respiro e scaraventandoci gli uni sugli altri contro le
pareti del precario ricovero; la terra sussultava con un ritmo
incredibile quasi a spaccarsi ed inghiottirci. Urla di terrore,
invocazioni, richiami di persone care, davano la convinzione che ormai
non ci sarebbe stato scampo per alcuno.
Il cupo rumore degli aerei non era ancora spento quando si sentì
quello della seconda ondata. Le bombe ripresero a grandinare sulla
città per altri pochi ma terrificanti minuti.
Appena il frastuono diminuì, consentendo di capire qualcosa tra le
grida che continuavano a riempire il ricovero ove mi trovavo, riuscii
a cogliere la seguente scena di cui furono protagonisti due bambini di
8 e 9 anni. Giuliano B., aggrappato alla madre, urlava che non voleva
morire; Giovannino T. lo guardava impassibile, quasi commiserandolo,
finché gli chiarì il motivo della sua calma: Mi, inveze, gò caro de
morir, parchè cussì no vado più a scuola. (lo sventurato Giuliano morì
qualche anno dopo la guerra, annegato nell'insidioso Sile che aveva
affrontato con imprudenza; Giovannino è diventato un pezzo d'uomo qual
era il suo buon papà, e vive tuttora a Treviso).
Il breve colloquio venne bruscamente interrotto dalla terza ondata
di bombardieri che suscitò altre rovine e la disperata convinzione che
Treviso e tutti noi saremmo spariti dal mondo.
Terminati i laceranti scoppi, rimanemmo ammutoliti senza il
coraggio di esprimere la speranza che il martellamento fosse concluso.
Poi si udirono le prime urla provenire dall'esterno, e cautamente,
quasi increduli, uscimmo all'aperto.
La scena era spaventosa; sebbene la giornata fosse limpida, il
sole quasi non si scorgeva perchè oscurato da una coltre di fumo e di
polvere alimentata dagli incendi e dai muri delle case che
continuavano a crollare.
A pochi metri dal nostro ricovero una bomba aveva colpito la villa
dell'on. Cappellotto; non sapevamo ancora quale strazio si era
compiuto nel rifugio situato nel cortile dell'ex convento delle
Cappuccine distante appena poche decine di metri. Ci andai pochi
giorni dopo; erano morti persino i grossi topi che vi si erano
installati forse vivendo di qualche avanzo alimentare lasciato cadere
da coloro che lo frequentavano durante gli allarmi; dal vicino
quartiere di S. Niccolò la gente, tra cui molti che sanguinavano,
fuggivano inebetiti dal terrore.
Una giovanetta correva urlando "mamma; mamma" tenendo stretta al
petto, quasi volesse portarla a salvamento la testa della madre.
Non fu possibile raggiungere la nostra casa, situata nei pressi
del rifugio che solitamente frequentavamo e che era stato colpito
massacrando due terzi delle persone che vi si trovavano; lo
spostamento d'aria, incanalatosi nella parte non crollata del rifugio
smembrò letteralmente parecchi corpi.
Una nostra vicina diventata madre dopo anni di ansiosa attesa,
impietrita dal dolore cullava tra le braccia il suo bambino di pochi
mesi rimasto senza la testa finita chissà dove.
Per arrivare alla casa che pur danneggiata si scorgeva in piedi,
dovemmo ritornare verso via Battisti, attraversare piazza del Duomo
seminata di macerie, seguire il Calmaggiore, superare l'enorme gradino
venuto a crearsi davanti alla Cassa di Risparmio e che era ciò che
rimaneva della ceduta facciata del palazzo dei Trecento; via XX
Settembre era pur ingombra di rovine, davanti all'albergo "Stella
d'Oro" quasi totalmente crollato, situato nell'area ora occupata dalla
sede della Banca Commerciale e dall'inizio di via Toniolo ~ i tedeschi
(sapremo poi il perchè) ci facevano sveltamente allontanare.
L'edificio occupato dal Provveditorato agli Studi (pregevole palazzo,
occupato a pianterreno da un negozio di calzature, che esisteva tra le
vie Diaz e Collalto) era un rogo impressionante, e qui venimmo
trattenuti da un ufficiale della "compagnia della morte" che, fuori di
senno dal terrore, gridava "tutti nel fuoco; tutti nel fuoco" con
l'assurda pretesa che senza un goccio d'acqua noi si potesse fermare
l'incendio che insieme devastava documenti scolastici e scarpe
preziosissime, anche se aventi la tomaia di tela da sacchi.
Fu necessario proseguire per il corso, fino quasi alla chiesa di
S. Martino completamente distrutta, girare per via Cadorna ove erano
state abbattute case e danneggiate le scuole "Gabelli" e il monumento
ai Caduti, infilarci per via Avogari giungendo infine a casa e
predisporsi a partire con le poche cose che era possibile portare con sé.
Bastò il motore di un piccolo aereo da ricognizione, che sorvolò
la città in quei momenti, per diffondere nuovamente il terrore: i xe
qua ancora! Uomini, donne, bambini urlanti, salivano e scendevano i
cumuli di macerie come formiche impazzite : per andare dove?
Mentre le squadre dell'UNPA, dei vigili del fuoco, della Croce
Rossa, sacerdoti, volontari accorsi anche dalla provincia e da altre
città venete, si prodigavano prontamente e con esemplare generosità
nell'opera di soccorso e di recupero delle salme, l'esodo delle
famiglie superstiti divenne quasi totale. Con la lenta ripresa del pur
necessario lavoro (ad eccezione di gran parte degli uffici pubblici
definitivamente stabilitisi nei vari paesi della Marca) parecchie
persone ritornarono in città nei giorni successivi per rientrare alla
sera nei paesi in cui erano sfollate le famiglie.
Valutare l'entità delle vittime è impossibile ed estremamente
difficile quella dei danni.
All'indomani del bombardamento si fecero cifre grosse, affermando
che i morti furono cinquemila, ma è da ritenere che le vittime non
siano state superiori ai duemila, di cui 1200 circa tra gli abitanti
del Comune e i restanti tra militari ed altre persone non
anagraficamente residenti a Treviso.
Un mese dopo l'attacco terroristico del Venerdì Santo, Radio
Londra e le stazioni satelliti diramarono il seguente comunicato
"Reuter":
L'ATTACCO CONTRO LA CITTA' DI TREVISO E' AVVENUTO DURANTE
L'INCONTRO GRAZIANI-VON RIBBENTROP, MENTRE SI SVOLGEVA UNA GRANDE
PARATA MILITARE IN ONORE DEL MINISTRO GERMANICO.
Questa è una menzogna colossale, anche se a Treviso erano
effettivamente presenti più militari del solito, e pur ritenendo
credibile la presenza di Graziani che pare si sia allontanato appena
dato il segnale d'allarme.
Una riunione militare di un certo livello era forse indetta quel
giorno presso l'albergo "Stella d'Oro". Venne anche sussurrato che sul
tetto di questo albergo ci fosse stato un uomo-travestito da donna e
poi trovato cadavere tra le macerie - che faceva segnali luminosi per
indicare agli aerei l'edificio in cui si svolgeva tale incontro, e che
egli non abbia fatto in tempo a salvarsi poiché gli aerei hanno
buttato giù bombe senza alcuna preoccupazione oltre a quella di vedere
cancellato il segnale e quindi anche l'albergo. Certo è che in quelle
rovine lavorarono soltanto militari germanici e la popolazione venne
tenuta alla larga;
Cinque feretri (con una feritoia per l'identificazione) sono stati
portati via dai tedeschi, e pare che vi fossero dentro i corpi di
altrettanti generali. Le salme dell'albergatore Luciano Voegelin,
abbastanza noto anche come scrittore, della moglie e di altri otto
congiunti vennero portate a Cortina d'Ampezzo.
Sicuramente molti erano i dipendenti del ministero
dell'Agricoltura che da tempo erano presenti nella zona di Treviso
(risale a quell'occasione la venuta della sede della Banca Nazionale
dell'Agricoltura, che rimane tuttora l'unica dipendenza, di questo
importante istituto di credito, che opera nella tre Venezie), ma
evidentemente non può essere ritenuto un successo bellico quello di
aver soppresso dieci tra funzionari e dipendenti del ministero e della
Corte dei Conti, e quattordici loro familiari. Morì anche il
sindacalista Giuseppe Tarchi (fratello del ministro dell'Economia
Corporativa Angelo Tarchi) con la madre e altri due congiunti.
Trovarono la morte a Treviso due dipendenti dell'Istituto
Nazionale di Statistica, uno dell'EIAR ente radiofonico, e non pochi
parenti di trevigiani qui giunti per le festività pasquali, oltre a
molti sventurati (da Conegliano, Spercenigo, Maserada) che quel giorno
vennero a trovarsi a Treviso.
Numerosi dovrebbero essere stati i morti tedeschi nell'unica
caserma che venne colpita; un lungo corteo di carri lasciò l'edificio,
con il macabro carico, nel corso della notte tra il sabato e la
domenica di Pasqua.
E' dunque impossibile valutare il numero dei morti. Certo è che
non furono pochi i carri (molto usate furono le carriole da verdura,
di lunghezza idonea, a due ruote) con i quali i parenti delle vittime
residenti fuori del Comune di Treviso vennero a ritirare i corpi dei
propri cari.
La drammatica incombenza di dover provvedere al seppellimento dei
propri congiunti fu frequente in quei giorni. Le ricerche avvenivano
nelle chiese dove erano state deposte le vittime, prevalentemente in
quella di S. Leonardo, nella Cattedrale, e nel battistero di S. Giovanni.
Erano corpi anneriti, spesso mutilati ed irriconoscibili, membra e
brani umani di chissà chi, tra cui una testa di bambina (raccolta in
via Ortazzo) con una manina pure stroncata e disperatamente appesa ai
riccioli biondi.
Tra questo scempio accadeva anche che diversi gruppi familiari si
disputassero un povero morto nel quale ravvisavano un proprio
congiunto; dubbi che sorgevano perchè i tremendi spostamenti d'aria
avevano spesso provocato, oltre all'irreparabile lacerazione dei
polmoni, l'asportazione delle vesti.
Un mio vicino di casa dovette confezionare con le sue mani la bara
ove poi collocarono il figlio portandolo di persona al cimitero.
La carenza di casse da morto, per l'imprevedibile occorrenza che
esaurì le scorte anche nei paesi vicini, determinò dei problemi; si
dice che vennero frettolosamente costruite bare a più posti, talvolta
ricorrendo al misero legno ricavato dalle cassette per la frutta.
Certo è che anche al camposanto di S. Lazzaro non ci fu posto per i
seppellimenti, e si dovette ricorrere ai cimiteri frazionali.
Sui ruderi degli edifici distrutti cominciarono ad apparire
scritte di violenta protesta. Vi aveva provveduto l'ufficio di
propaganda dei reggitori d'allora, ma è indubbio che interpretassero
lo sdegno di tutta la cittadinanza.
Furono parecchi coloro che a causa delle ferite morirono dopo
varie settimane, malgrado l'encomiabilissima dedizione dei medici di
Treviso che - nei posti di soccorso istituiti nei vari punti della
città - nell'ospedaletto approntato nella zona di S. Antonino vennero
accolti 150 feriti gravi ed altrettanti di leggeri - riuscirono a
salvare un gran numero. Qui e negli ospedali della provincia fu
assiduamente presente, per recare espressioni di conforto, il Vescovo
mons. A. Mantiero che con i suoi collaboratori fu visto tra le macerie
della città ancor prima della cessazione dell'allarme.
Un giovane sordomuto venne estratto salvo -dopo oltre tre giorni-
dalle rovine della sua casa in via Pescatori. Il padre era morto
all'istante, e la madre -vissuta fino alla domenica di Pasqua- gli
aveva fatto schermo col proprio corpo per proteggerlo dalla possibile
caduta di altri materiali.
Durissimo il bilancio degli edifici distrutti o gravemente
danneggiati.
Il palazzo dei Trecento, il più prestigioso monumento civile di
Treviso, era quasi totalmente crollato; una enorme trave si era
infilata attraverso il pavimento fuoriuscendo dal soffitto della
sottostante solidissima loggia.
Gravemente colpiti in molti casi irreparabilmente furono la
sezione ospedaliera di Cafoncello, il Duomo, il palazzo Da Noal, la
chiesa di S. Martino, il tempio votivo della Madonna Ausiliatrice,
l'edificio della Borsa, il battistero di S. Giovanni, la stazione
ferroviaria, il politeama "Garibaldi", il patronato S. Nicolò,
l'orfanotrofio "G. Emiliani" e la vicina scuola industriale, il liceo
ginnasio "Canova", la scuola "De Amicis", la Corte d' Assise e il
palazzo degli Agolanti, numerose case quattrocentesche con le pareti
affrescate che costituivano un aspetto caratteristico, quasi esclusivo
della città.
Le località più sconvolte risultaronoquelle periferiche di S.
Lazzaro, Fiera e S. Antonino; in città il quartiere di S. Nicolò,
piazzale e via Cesare Battisti, via Giordani (via Pescatori), Tezzon,
via Dotti, via Fra' Giocondo.
I ricoveri colpiti furono otto tra cui quello detto "dei Bagni";
era un vicolo interrato che attraversava il giardino dei conti
Avogadro e che era stato dotato di una copertura di calcestruzzo :
divenne una raccapricciante tomba per coloro che vi si rifugiarono.
Sull'antenna della torre di piazza dei Signori venne issata - a
carattere permanente e a mezz'asta - una bandiera tricolore.
***
Tra le tante cose preziose perdute dai sinistrati sono da
ricordare le carte annonarie, e la Sezione provinciale
dell'alimentazione ordinò il rilascio di duplicati.
Nei giorni immediatamente successivi al bombardamento venne
disposta la distribuzione, per persona, di 100 grammi di burro, 100
grammi di formaggio fuso, 300 grammi di marmellata, 70 grammi di
salumi, 50 grammi di conserva di pomodoro, e un certo numero di
candele steariche; il pane poteva venire ritirato nei panifici anche
senza la carta annonaria ( previa annotazione con riserva di ritirare
il bollino) nella normale misura di 150 grammi giornalieri. Venne
autorizzata la distribuzione straordinaria di 100 grammi, per persona,
di carne in conserva e latte condensato.
Provvedimenti di assistenza vennero adottati con prontezza, e in
pochi giorni vennero raccolti fondi per L. 1.500.000: la cassa di
Risparmio erogò, il 10 aprile, centomila lire di cui 50.000 messe a
disposizione dell'autorità civile e 50.000 assegnate al proprio
personale maggiormente sinistrato.
Notizia comprensibilmente accolta con gioia fu quella dell'aumento
di 50 grammi, dal 20 aprile, della razione giornaliera di pane, che
risultò pertanto la seguente: 200 grammi per i normali consumatori,
275 grammi per i giovani dai 9 ai 18 anni, 375 grammi per i lavoratori
manuali, 475 grammi per gli operai addetti ai lavori pesanti e di 575
grammi per gli addetti ai lavori pesantissimi.
Anche la razione di pasta e riso venne aumentata : tre chilogrammi
al mese complessivamente. Il tasso di abburrattamento della pasta
venne ridotto dal 90 all'80 per cento.
Poiché le scuole del capoluogo erano state chiuse, il capo della
provincia prese accordi con il provveditore agli Studi e il 13 aprile
emise un decreto col quale
Tutti gli studenti delle classi 1926-27-28residenti a Treviso,
debbono considerarsi mobilitati al servizio del lavoro e presentarsi
al Comando provinciale dell'U.N.P.A presso la Prefettura di Treviso,
alle dipendenze del quale resteranno per tutto il periodo di emergenza
necessario al riassetto del capoluogo e ripresa della vita cittadina.
Gli studenti che non ottempereranno tale ordine, non verranno
presi in considerazione ai fini degli scrutini finali e saranno
deferiti al Tribunale di guerra.
Con detta ordinanza venne richiesto l'invio a Treviso, a
disposizione del Genio Civile, di tutti gli automezzi non impiegati
per industrie di guerra o approvvigionamenti alimentari, e la
requisizione di tutti i carri agricoli dei Comuni situati a una
distanza non superiore ai quindici chilometri da Treviso. Ciò per il
periodo di emergenza necessario alla riattivazione della vita cittadina.
Ripresero a funzionare presso il Seminario vescovile, dopo la
distruzione del vicino patronato di S. Nicolò il refettorio che
distribuiva minestra, per i meno abbienti, a cura delle organizzazioni
religiose.
Il 16 aprile Domenica in Albis - in tutte le chiese della
provincia vennero celebrati riti di suffragio per le vittime
dell'incursione. Nel tempio di S. Francesco a Treviso ha celebrato la
Messa il vescovo mons. Antonio Maniero.
***
Fervevano intanto le operazioni di sgombero delle macerie tra le
quali -anche dopo un mese- vennero rinvenute alcune salme.
***
Poiché solitamente riparavo con la famiglia nel ricovero allestito
a poche decine di metri da casa -e che venne colpito in pieno- si
diffuse la notizia, avvalorata dal fatto che la pur traballante
abitazione era rimasta deserta nei giorni successivi, che anche noi
fossimo morti. Messe di suffragio vennero fatte celebrare, per noi, da
famiglie amiche.
Un ricordo personale di maggiore interesse risale a pochi mesi
dopo la conclusione della guerra. E' necessario premettere che,
trentacinque anni addietro, la famiglia di mia madre abitava in una
grande casa nel cui androne erano situati gli ingressi di due
abitazioni; in una di queste alloggiava la famiglia di un bambino di
7-8 anni il quale era compagno di giochi della mia futura mamma, e che
successivamente emigrò con la sua famiglia negli Stati Uniti.
Il ragazzetto trevigiano divenne cittadino americano, con tutti i
conseguenti diritti doveri, e il 7 aprile -quale sottufficiale
dell'aeronautica americana- era lassù, in uno di quei maledetti
bombardieri che stavano fracassando Treviso. Conclusa la guerra e
trovandosi in Italia, tornò alla casa natia per avere notizie
dell'Angelina, la compagna di giochi dell'infanzia ormai lontana.
Non trovò mia madre ma altri parenti che erano subentrati
nell'abitazione situata ai margini della città. Riferì l'angoscia
provata quel giorno per la certezza di aver recato danni irreparabili
alla sua città, per il dubbio atroce di aver contribuito a dilaniare
anche la bambina che, nella sua mente, era rimasta impressa tra le
cose più care della sua terra d'origine, della sua Patria diventata
nemica. Informò anche -e questo è il motivo che qui interessa- che
l'azione contraerea aveva notevolmente contrastato l'incursione su
Treviso; le schegge dei proiettili esplodenti a poca distanza dagli
aerei schizzavano entro le fusoliere, per cui le formazioni
rientrarono con alcune decine di morti a bordo e numerosi feriti. Non
ci fu possibile incontrarlo. Gli bastò sapere che era cessato almeno
uno dei suoi motivi di rimorso, e partì.


Dal libro TREVISO NEL FUOCO di Mario Altarui. Edito dalla Cassa di
Risparmio della Marca Trivigiana nella ricorrenza del XXX° del Venerdì
Santo 1944. Edizioni di Ca' Spineda


IL BOMBARDAMENTO DEL 14 MAGGIO 1944

Trascritto dal cyberamanuense Bruno Fanton in ricordo delle vittime
innocenti, e per indicare alle nuove generazioni modi alternativi di
studiare la storia.


A conferma che Treviso non presentava obbiettivi validi per
l'indiscriminato bombardamento che, nel tragico Venerdì Santo,
sconvolse la città e il suburbio nei sette minuti iniziati alle 13.05
e durante i quali -in tre successive ondate- oltre trecento
quadrimotori vuotarono il loro carico di morte, riproduciamola lettera
di protesta che il comitato provinciale di Liberazione nazionale di
Treviso indirizzò il 15 aprile.
Al Comando Militare Provinciale del C.V.L.:
SI INVITA CODESTO COMANDO MILITARE PROVINCIALE A SEGNALARE AL COMANDO
ALLEATO CHE GLI ULTIMI BOMBARDAMENTI, E SOPRATTUTTO QUELLO ESEGUITO IL
7 APRILE 1944 SULLA CITTA' DI TREVISO SONO STATI DANNOSIALLA CAUSA
AVENDO ESASPERATO LA POPOLAZIONE PER I DANNI INGENTI PROVOCATI A CASE
E A PERSONE, SENZA CHE ALCUN NOCUMENTO DI SERIA IMPORTANZA SIA STATO
APPORTATO AD OBBIETTIVI DI CARATTERE MILITARE. LA PRESENTE
SEGNALAZIONE RIVESTE CARATTERE DI ESTREMA URGENZA ED IMPORTANZA, PER
CUI SI INVITA CODESTO COMANDO A DARE COMUNICAZIONE A QUESTO COMITATO
CIRCA LA SUA EFFETTUAZIONE, COMUNICANDO ANCHE l'EVENTUALE RISPOSTA DEL
COMANDO ALLEATO.
Il comando cosiddetto Alleato rispose sollecitamente per via aerea
il 14 maggio, di domenica : con un'altra crudele azione terroristica
su Treviso.
Era appena passato il mezzogiorno quando i quadrimotori
anglo-americani salirono rapidamente dall'orizzonte. Io mi trovavo,
con i familiari e migliaia di altre persone a sud della città. Le
bombe, sganciate proprio sopra le nostre teste, iniziarono la loro
caduta obliqua prima rotolando e poi decisamente rivolte alla nostra
povera città della quale si scorgevano nitidamente le case. Le
deflagrazioni produssero un effetto ottico allucinante: si videro,
letteralmente, i tetti degli edifici saltare in aria, subito superati
da una nera coltre di fumo e di polvere che ristagnò per lunghi minuti
sulla martirizzata Treviso. Altri lutti, altre mutilazioni di
monumenti e di case.
I morti non furono molti perchè, dal Venerdì Santo, appena le
sirene suonavano tutti si precipitavano il più lontano possibile. Non
tutti riuscirono. Di una mia parente non rimase nulla, e venne
ritrovato solo un pezzo di bicicletta con la borsa in via Zermanesa
che venne duramente colpita unitamente alle vie Carlo Alberto, Sant'
Andrea, Collalto, zona di S. Tommaso, la piazzetta retrostante il
palazzo dei Trecento (ora p. G. Ancilotto), mentre gravissimi danni
subì la Loggia dei Cavalieri (unica loggia pubblica del genere ancora
esistente in Europa, risalente al XII secolo e ornata di affreschi).
Una bomba rotolò lungo lo scalone del palazzo della Prefettura,
recando ugualmente notevoli lesioni.
Scoppiò invece quella che colpì il padiglione della seconda
divisione medica dell'ospedale civile; fortunatamente i degenti erano
già stati trasferiti nei locali dell'asilo infantile di Casier.

Dal libro TREVISO NEL FUOCO di Mario Altarui. Edito dalla Cassa di
Risparmio della Marca Trivigiana nella ricorrenza del XXX° del Venerdì
Santo 1944. Edizioni di Ca' Spineda



UNA TRAGICA HOLLYWOOD 1944, CASTELNUOVO AL VOLTURNO
Una testimonianza non di parte sui metodi di propaganda americani
Francesco Fossa




Dal giugno del 1944 sono trascorsi quasi 60 anni, ma i ricordi di
Giovanni Tomassone, classe 1929, una vita da falegname a Castelnuovo
al Volturno, sono nitidi come se i fatti che stiamo per raccontare
fossero accaduti ieri: "... ma ancora oggi non capisco perché il mio
paese che fortunatamente aveva riportato solo pochi danni nella guerra
vera del 1944, è invece finito in macerie per una guerra finta".
È una storia assurda che ci riporta alla primavera del 1944, quando
Castelnuovo - un paesino di settecento anime appoggiate alla catena
montuosa delle Mainarde, dove nasce il fiume Volturno, in un angolo di
meridione incastrato tra Lazio, Molise, e Campania - viene tagliato da
quella linea che i tedeschi, in ritirata lungo lo stivale, hanno
tracciato sulle loro mappe: è la linea Gustav, un poderoso
schieramento di uomini e mezzi dispiegato da Cassino a Ortona che,
secondo le intenzioni del maresciallo Kesselring, dovrebbe bloccare
l'avanzata degli alleate sbarcati il 9 settembre del 1943 a Salerno.
Castelnuovo al Volturno è a circa cinquanta chilometri ad est di
Cassino, a mezza costa sotto il monte Marrone. Già dal novembre 1943
il paesino è stato evacuato, o meglio rastrellato dai tedeschi, i suoi
abitanti sono stati incolonnati e trasferiti con treni merci, prima ad
Anagni, poi più a nord, a Ferrara e Modena. Solo un piccolo gruppo di
persone, quasi tutti uomini, si era sottratto alla cattura e per
diversi mesi aveva sopportato il freddo dell'inverno in anfratti e
fienili nascosti dalla vegetazione. Tra questi c'è anche Giovanni
Tomassone, aveva 15 anni. "I tedeschi si erano ritirati sulla cresta
del monte Marrone e sulle cime circostanti mentre gli americani
avevano preso tutta la pianura sottostante. Collaboravamo con loro
indicando le postazioni, i nidi di mitragliatrice dei tedeschi...".
Fin qui la storia di Castelnuovo raccontata dall'anziano falegname non
è molto diversa dalle tante vicende belliche che segnano la penisola
nel 1944.
Dopo gli americani, nel paese fecero campo i nordafricani del
contingente francese. Ne morirono quasi mille tentando di conquistare
la cima del monte Marrone. Poi arrivarono gli alpini del Corpo
Italiano di Liberazione. Saranno proprio le penne nere del battaglione
Piemonte a espugnare, all'alba del 31 marzo, la cresta a 1800 metri
dalla quale si dominava tutta la valle del Sangro. Il 16 maggio la
battaglia di Cassino arriva al suo apice, l'Abbazia e tutto quello che
gli sta intorno per decine di chilometri non esistono più. Il piccolo
paese di Castelnuovo al Volturno però conta solo quattro case
distrutte dai colpi d'artiglieria: è un miracolo.
Gli abitanti, quelli che non erano stati evacuati, ritornarono così
alle loro abitazioni, mentre la guerra andava velocemente
allontanandosi verso il nord e l'incubo sembrava passato. Ma la
mattina del 5 giugno una jeep si arrampicò lungo i tornanti che
portavano a Castelnuovo. A bordo c'era un tenete inglese che si
presentò al sindaco, Vincenzo Martino, con un ordine perentorio: "Il
paese deve essere immediatamente sgombrato, dobbiamo effettuare una
disinfestazione che durerà almeno dieci giorni". La gente di
Castelnuovo fu caricata sui camion, come già era accaduto con i
tedeschi, e costretta ad abbandonare nuovamente le case: "Ci portarono
più a valle sulla piana di Rocchetta al Volturno". Giovanni Tomassone
rivive incredulo quelle ore: "La mattina del 6 giugno fummo svegliati
da un rombo assordante, tutta la valle si era riempita di mezzi
militari, carri armati, cannoni, camion carichi di soldati. Si
assestarono attorno a Castelnuovo. Qualcuno di noi provò ad
avvicinarsi, ma venne sempre allontanato dalla polizia militare.
C'erano soldati di tutte le razze... ma non capivamo cosa volessero
fare". Gli abitanti di Castelnuovo avevano fatto largo a un grosso
contingente della 82a divisione dell'ottava armata alleata. Truppe
affiancate da un buon numero di cineoperatori. La bugia della
disinfestazione era durata poco: doveva essere girato un documentario.
"Per alcuni giorni", racconta Tomassone, "osservammo dalle cime degli
alberi le scene di una battaglia in piena regola, esplodevano bombe
fumogene, i soldati correvano a testa bassa e sparavano. Qualcuno
faceva finta di essere stato colpito e allora arrivavano i barellieri,
l'ambulanza che portava i soccorsi ... urlavano ma era tutto finto!".
Le cineprese le ricorda Carmine Miniscalco, anche lui abitante
sfollato di Castelnuovo. All'epoca aveva 17 anni: "Sparavano e
filmavano, qualcuno mi disse anche di aver visto uomini con le divise
tedesche, ma io in quella confusione non le ho notate. Le piante di
quercia minate con la dinamite e fatte saltare come fuscelli invece
sì, quelle non le scordo".
Ma nessuno tra la gente della vallata avrebbe mai immaginato che lo
scherzo, quella finzione, si sarebbe trasformata di lì a poco in
tragedia. Ora i ricordi, i racconti di Tomassone e di Miniscalco si
intrecciano alle voci sdegnate di un gruppo di anziani seduti attorno
a un tavolo nella piazza del paese.
Smettono di giocare a carte e anche quelli che non avevano voluto
rispondere alle domande sui fatti di allora, quando si arriva alla
cronaca del 17 giugno 1944 cambiano atteggiamento, si infervorano,
lanciano imprecazioni: "Ci svegliammo, con i colpi dei cannoni,
tiravano verso la montagna, un piccolo aereo girava in tondo nel
cielo, qualcuno giura d'aver visto una cinepresa spuntare da
finestrino... poi i colpi cominciarono ad avvicinarsi al centro
abitato. A mezzogiorno il fuoco si concentrò sulle case... il
campanile della chiesa fu il primo edificio a essere colpito, un colpo
di cannone lo centrò in pieno! Vedevamo le nostre case cadere una dopo
l'altra senza sapere perché. I carri armati attraversavano i campi di
patate e i soldati, americani, inglesi, neozelandesi, marocchini, si
riparavano dietro i cingoli... ma da cosa?".
Per giorni il paese rimase avvolto da una nuvola di polvere dentro la
quale si intravedevano cumuli di macerie. Agli abitanti di Castelnuovo
al Volturno fu consentito di ritornare alle loro case solo ai primi di
luglio: l'85 per cento delle abitazioni non c'era più. A testimoniare
l'assurdo, il paese prima e dopo il bombardamento, restano o solo due
foto, tra altri cimeli bellici, in un piccolo museo allestito in una
delle poche case risparmiate dalle granate. La gente non riusciva a
farsi una ragione di un simile scempio. E anche la vicenda dei filmati
era passata in secondo piano, quasi dimenticata.
Finché non cominciarono ad arrivare le prime lettere, come quella
scritta da un cugino di Giovanni Tomassone, Domenico, fatto
prigioniero dagli americani in Nordafrica e trasferito in un campo di
detenzione negli Stati Uniti.
Nella lettera voleva sapere se davvero il paese era stato distrutto,
perché aveva visto un filmato dove era raccontata la storia di
Castelnuovo e del monte Marrone eroicamente conquistato dalle truppe
alleate con i soldati tedeschi che venivano snidati casa per casa...".
La guerra finisce e le lettere cominciano ad arrivare anche da Boston,
da Los Angeles, spedite da gente del posto emigrata in America ma con
amici e parenti a Castelnuovo. Tommaso Pitassi, da pochi mesi a
Filadelfia, rimase senza parole nella sala cinematografica dove
proiettavano un "Combat film" sulla guerra in Italia. La battaglia di
Castelnuovo veniva descritta come una delle più cruente, i soldati
dell'Ottava Armata raffigurati come eroi votati al sacrificio. Ma
Pitassi sapeva che quelle scene di guerra, i corpo a corpo, erano una
pura messa in scena. Perché lui era lì, su quella piana, quando erano
state fatte le riprese, e sapeva anche che gli unici ad aver
combattuto a monte Marrone erano stati i soldati marocchini e gli
alpini del battaglione Piemonte. Perché per inglesi e americani la
parete di roccia alle spalle di Castelnuovo era assolutamente
imprendibile. In tanti videro negli Stati Uniti il documentario,
figlio della propaganda bellica americana, la storia riscritta con la
cinepresa e le comparse.
A chi, come Esterina Ricci aveva fatto delle ricerche a Chicago,
avrebbero detto che quella drammatica farsa era stata necessaria
perché alcune "pizze", avvincenti filmati della campagna in Italia,
erano bruciate e andavano rimpiazzate. Recentemente qualcun altro si è
nuovamente messo sulle tracce di quel Combact Film: Michele Peri e
Giuseppe Tomassone, rispettivamente insegnante al liceo artistico di
Cassino e presidente de "Il Cervo", un'associazione culturale di
Castelnuovo al Volturno. "Non è solo curiosità. Quel filmato è un
pezzo di storia, vorremmo dare luce a questa vicenda della quale si è
parlato poco". Finora le ricerche hanno dato pochi frutti.
Negli archivi dell'Istituto Luce, Peri e Tomassone sono riusciti a
scovare solo alcuni spezzoni di un filmato girato nella zona prima
della distruzione del paese. Sono immagini dei soldati marocchini che
per circa tre mesi tentarono di conquistare monte Marrone: eccoli
camminare in fila indiana verso la montagna, e poi in momenti di relax
nell'abitato di Castelnuovo, dove si divertivano ad aprire scatolame
con i denti e a molestare le donne del paese. Sono poche sequenze, non
hanno niente di epico ma, almeno queste, nella loro semplice crudezza,
sono vere.

RINASCITA del 1 agosto 2003



IL 22 LUGLIO GLI ALLEATI BOMBARDARONO LA CITTA' (FOGGIA ndr)
PROVOCANDO 22 MILA MORTI Agostinacchio: oggi, nel ricordo di quella
tragedia, rinnoviamo il nostro impegno per la pace


Loris Castriota Skandeberg


FOGGIA. A 58 anni dalla sanguinosa estate del 1943, Foggia celebra
la memoria delle oltre 20mila vittime che hanno segnato una delle
pagine più tragiche della sua storia.
Il 75% delle costruzioni rase al suolo, 12 bombardamenti a tappeto
- senza discriminazione di obiettivi - da parte delle Fortezze Volanti
tra il maggio ed il settembre, episodi toccanti e atti di eroismo: un
diario di poche settimane di guerra dal cielo che fece meritare a
Foggia la medaglia d'oro al valor civile.
Ancora oggi, sono poche le famiglie foggiane che non hanno pagato
con la vita di un proprio caro un tributo di sangue a quelle giornate
dell'estate '43.
Una strage ingiustificata, come hanno riconosciuto, a decenni di
distanza anche tanti storici inglesi che, riprendendo analisi delle
azioni di guerra degli Alleati in quella tragica estate, hanno
rilevato la scarsa rilevanza militare dell'obiettivo, almeno in quel
periodo e in quel particolare momento del conflitto.
Il fronte si era spostato a nord, le colonne di militari tedeschi
erano ormai in marcia sulla dorsale Adriatica, e Foggia, con il suo
pur importante nodo ferroviario, non alimentava più le truppe
dell'Asse. E neppure i 16 aeroporti militari che erano stati allestiti
con mezzi di fortuna nel Tavoliere, erano abbastanza distanti dalla
città dal preservarla da incursioni dirette ad indebolire il nemico:
tra l'altro, gli Alleati avevano tutto l'interesse a conservare
infrastrutture che avrebbero potuto sfruttare in seguito.
Ma Foggia andava «conventrizzata» come criminalmente disse il
giorno dopo Radio Londra: le andava, cioè, restituita la sorte
riservata dai bombardieri tedeschi alla cittadina inglese di Coventry
che, qualche giorno prima, era stata pesantemente colpita. Con una
sostanziale differenza: all'epoca, Coventry era sede di un rilevante
numero di fabbriche importanti per lo sforzo bellico alleato.
Una mera rappresaglia, dunque. Un atto di terrorismo psicologico
gratuito, cinico, spietato: una politica di guerra perseguita senza la
minima considerazione delle vite di inermi cittadini civili e mai un
cenno della volontà di risarcire - se non materialmente - almeno
moralmente una città coni gravemente colpita.
Come ormai da due anni, anche oggi l'amministrazione comunale
guidata dal sindaco Paolo Agostinacchio commemora quei tristi giorni e
rende omaggio alla memoria dei 22mila foggiani caduti sotto le bombe e
le macerie.
La «Giornata della pace». Un titolo significativo per un
calendario di manifestazioni che vuol diffondere un solo messaggio:
pace nel mondo, mai più Terrore e l'orrore della guerra per risolvere
le umane questioni.
«Migliaia di vittime, scene ancora presenti ai superstiti, il
pianto disperato dei bambini: questa fu restate del 1943 a Foggia - ha
ricordato il sindaco Agostinacchio in un messaggio ai cittadini - la
città ricordando le sue vittime indica quale obiettivo irrinunciabile
la costante ricerca della pace. Non vendetta, ma pace: ecco il
significato delle celebrazioni del 22 luglio. Dalla torre campanaria
del Comune, partiranno 12 rintocchi: tanti quante furono le
incursioni, fino al 6 settembre 1943. Ad anni di distanza, nessuno ha
spiegato il motivo per il quale anche tre giorni dopo la firma
dell'armistizio, apposta il 3 settembre sui protocolli resi pubblici
l'8 settembre, Foggia fu brutalmente e terroristicamente bombardata:
dato che dovrebbe essere oggetto di qualche riflessione, non soltanto
in sede storica».

IL SECOLO D'ITALIA Quotidiano 22 Luglio 2001


IL MARTIRIO DI FOGGIA

Dal programma "LA GRANDE STORIA" trasmesso Giovedì 15 luglio 2004 su
"RAITRE" -
trascrizione di testimonianze raccolte (dal Cyberamanuense Mauro
Franciolini) nel corso della puntata "BOMBARDAMENTI":

Elenco delle incursioni americane che nel 1943 distrussero Foggia:
28 maggio 300 vittime
30 maggio 9 vittime
31 maggio 153 vittime
21 giugno 91 vittime
15 luglio 1.293 vittime
22 luglio 7.643 vittime
19 agosto 9.581 vittime
25 agosto 971 vittime
9 settembre 21 vittime
17 settembre 168 vittime
18 settembre 11 vittime
TOTALE 20.241 vittime

Nello spaventoso bombardamento del 22 luglio 1943 settantuno
"Fortezze" americane, appartenenti al 97° ed al 99° Gruppo, colpirono
tutta l'area cittadina. Nella terrificante incursione del 19 agosto
1943 centosessantadue "Fortezze" e settantuno "Liberators" sganciarono
sulla città 586 tonnellate di esplosivo.
Un anziano ricorda:
"Il 22 luglio 1943 ci fu un enorme bombardamento che interessò
l'intera città e, dopo il bombardamento, ci fu un mitragliamento su
tutta l'area cittadina: specialmente nelle zone interessate da ville e
giardini. Il mitragliamento non era diretto su forze armate , ma era
diretto su chiunque si trovasse a camminare e, combinazione, quando
effettuarono questi mitragliamenti sulle ville , nel cimitero e nella
villa comunale non esistevano più depositi perché erano stati portati
via già da oltre un mese… Quindi l'azione fu subita, esclusivamente,
dalla popolazione civile".


GROSSETO, LUNEDI' DI PASQUA 1943: LA STRAGE DELLE GIOSTRE

Le bombe del 301° Gruppo americano avevano già ucciso, in un paesino
sardo, dei bambini all'uscita dall'asilo. Altri a Cagliari in un
giorno di festa. Il Lunedì di Pasqua del 1943 l'obiettivo
dell'operazione "Uovo di Pasqua color oliva" era l'aeroporto militare
di Grosseto, ma il 301° fece anche 134 vittime civili e, fra queste,
27 erano bambini.

Dal programma "LA GRANDE STORIA" trasmesso Giovedì 15 luglio 2004 su
"RAITRE" -
trascrizione di testimonianze raccolte (dal Cyberamanuense Mauro
Franciolini) nel corso della puntata "BOMBARDAMENTI":

Un anziano (soldato all'epoca del fatto) ricorda:
…il Lunedì, alle due circa del giorno, arrivarono questi aerei senza
preavviso. Vedevo dei bossoli di mitraglia di quelli così… (indicando
con le mani circa 15/20 cm.); poi, infatti, è stato riscontrato che,
effettivamente, allora avevano mitragliato forse dall'alto, non lo so…
dalla parte di qua dov'erano le giostre… e ci fu una strage
eh…specialmente davanti all'ospedale militare che, poi, è vicino alla
ferrovia c'erano due grosse buche: roba da matti… roba da far spavento…
Una donna (bambina all'epoca del fatto) ricorda:
L'allarme non aveva suonato, stranamente, perché suonava sempre con
molto anticipo tanto che eravamo anche un po' stufi: bombardavano
Genova e… suonava l'allarme che durava tutta la giornata. E quel
giorno, invece, no… Arrivammo all'angolo per andare al rifugio; mia
sorella, che mi teneva ancora per mano, mi buttò a terra e mi disse:
"Giù!" e io le dissi: "No! Ho il vestito nuovo della Pasqua!". Ci
buttammo per terra perché mia sorella aveva visto che veniva (poi lo
vidi anch'io) un aereo dal fondo della strada… che veniva molto a
bassa quota e cominciava a mitragliare. Io non ho mai visto tanto
sangue in quel modo: una cosa incredibile: scarpe… pezzi di piedi… i
vigili che, con le sistole, stavano lavando il tutto…roba dell'altro
mondo. Arrivammo in piazza del Duomo; c'era un monsignore, mi sembra
si chiamasse monsignor Bianchini, che si era stracciato la veste (il
paramento bianco che portava sempre) e fasciava i feriti… e erano
tutti ammucchiati sotto i portici del Comune e sotto i portici… quegli
altri davanti… una cosa apocalittica…
Un anziano ricorda:
Lì, a circa 30 metri da noi, dove c'era il Luna Park si sentì un
grosso scoppio. L'altro mio amico che guardava di là, disse: "No! Qui
eh bombardano!". Si cominciò a sentire gli urli della gente… dei
bambini… più che altro erano bambini. Dal fondo di Via Cesare Battisti
si vide la contraerea che abbatté un apparecchio e vidi due
paracadutisti che si erano gettati.
Un uomo (bambino all'epoca del fatto) ricorda:
Vidi questo luogo di felicità dove andavamo… questa strage… questa
strage immensa… In quello spezzonamento era morto il figlio del
titolare del Luna Park. Questo bambino, quando successe tutto questo
caos nel Luna Park, corse immediatamente dal padre. Corse dal padre…
il padre lo prese in collo; in quel momento cadde un grosso spezzone:
uccise il bambino e salvò il padre…
Un anziano ricorda:
Arrivai dove c'erano le giostre e cominciai a vedere bambini in terra
morti… feriti. Poi, c'era un'infinità di persone che piangevano e
urlavano… il sangue per terra da tutte le parti.
Una donna (bambina all'epoca del fatto) ricorda:
Sentii un gran caldo: caldo, caldo in bocca; una fiamma di fuoco in
bocca e mi chiappai, così…(portandosi le braccia al petto) perché
sentii un gran dolore e mi buttai verso casa; e vidi tutti i miei
compagni della mia stessa età, più piccoli o poco più grandi, tutti in
terra: io sola ero rimasta in piedi… Davanti al passaggio a livello
sentii una voce che chiamava il mio babbo… io a tratti mi ricordo
perché, qualche volta, perdevo i sensi… poi riaprivo gli occhi… non lo
so: era il dottor Cambri di Grosseto. Mi chiamò, poi, chiamò il mio
babbo; ci portò sotto a un sottoscala e, forse, fu la mia salvezza
perché mi tamponò tutte e due le ferite: una sotto il braccio e,
l'altra, nel polmone. All'ospedale vecchio di Grosseto c'erano delle
grate in terra; sopra c'erano morti accatastati così: uno sopra all'altro.



IL MARTIRIO DI GENOVA

Le incursioni aeree su Genova e provincia provocarono oltre 9.000
vittime tra i civili: le donne, i vecchi e i bambini schiacciati sotto
le macerie delle loro case superano in numero di quattro volte i tanto
celebrati caduti della resistenza, ma per loro, morti "scomodi", resta
soltanto l'oblio.
Il simbolo del martirio della provincia è rappresentato dalla
città di Recco: tra il 10 novembre 1943 e il 28 agosto 1944 fu
bombardata 27 volte. Il 97% del centro abitato fu distrutto, i civili
uccisi furono 126 ed alcune centinaia furono i feriti.
L'accanimento sull'area monumentale di Genova, certo non
importante da un punto di vista militare, è un'ulteriore dimostrazione
della strategia terroristica che guidò i bombardamenti anglo-americani
su tutta la penisola italiana.
Per i bombardamenti dell'agosto 1943, più che lo smantellamento
dei sistemi di difesa e dell'apparato produttivo, l'obiettivo
immediato fu quello di "punire" un popolo che aveva osato opporsi
all'imperialismo delle plutocrazie anglosassoni e che bisognava
convincere col terrore a ripudiare il fascismo e ad arrendersi.
Dal gennaio 1944 l'oggetto delle incursioni "punitive" non furono
più solo le zone residenziali urbane, ma i quartieri operai, i centri
industriali e il sistema delle comunicazioni dell'intera provincia: i
bombardamenti assunsero quindi un carattere prevalentemente strategico.
Al termine della guerra, anche per Genova, i danni subiti dai
bombardamenti terroristici anglo-americani saranno altissimi: oltre
16.000 edifici distrutti o sinistrati, danni enormi alle industrie e
gravissimi danni al patrimonio artistico della città.
Nel corso della guerra Genova fu colpita da 86 incursioni aeree
nemiche. 1940: Notte dell'11/12 giugno, aerei inglesi sorvolano la
città lasciando cadere bombe di piccolo calibro: è il primo
bombardamento sulla città nella Seconda guerra mondiale.
14 giugno, un attacco navale francese provoca la morte di tre
persone, 12 feriti ed il danneggiamento di alcuni edifici: le zone più
colpite sono quelle fra Sestri Ponente e Voltri.Notte del 14/15
giugno, aerei inglesi bombardano la città provocando un morto ed otto
feriti.
1941: Domenica 9 febbraio, alle ore 8.15, una formazione navale
inglese, proveniente da Gibilterra, si presenta al largo di Genova,
all'altezza del promontorio di Portofino e di lì, protetta da una
densa foschia, dà inizio ad un furibondo bombardamento che dura fino
alle 9.45. Piovono sulla città 273 proiettili di grosso calibro e 782
di piccolo calibro, per un totale di circa 300 tonnellate di
esplosivo. Le bombe non colpiscono nessun obiettivo di carattere
militare, ma causano 141 morti, 227 feriti e circa 2.500 senzatetto.
Ingenti anche i danni: oltre 250 case distrutte, colpita la cattedrale
di San Lorenzo, la biblioteca Berio, Via XX Settembre, larghe parti
del centro e del centro storico, settori della zona collinare, gli
stabilimenti dell'Ansaldo e quattro sono le navi affondate. Una bomba
ha colpito in pieno la cattedrale di San Lorenzo, ma non è esplosa:
oggi il proiettile è esposto all'interno della chiesa a perenne
ricordo di quel bombardamento sacrilego.
1942: Nella cosiddetta "Offensiva di autunno" sull'Italia il
"Bomber Command" inglese prevede di bombardare anche Genova. La
R.A.F., dalle sue basi in Inghilterra, lancia sei attacchi aerei che
colpiscono duramente il centro della città. Nei primi giorni di
dicembre si esaurisce, almeno per Genova, l'incessante martellamento
dei bombardamenti. Nell'arco di poco più di un mese la città ha
cambiato il suo aspetto: gli edifici distrutti dalle bombe sono 1.250
ed i morti sono oltre 500. Vanno ricordati anche i 354 morti
schiacciati e calpestati nella ressa per entrare nel rifugio della
galleria delle Grazie a Porta Soprana durante l'incursione aerea del
23/24 ottobre.
1943: L'8 agosto, una violenta incursione dei bombardieri alleati,
ancora una volta condotto con sganciamenti simultanei di bombe
incendiarie e dirompenti, provoca oltre 100 morti e circa 13.000
senzatetto. Il centro cittadino risulta, anche in questa occasione, la
zona più colpita: in piazza De Ferrari tutti gli edifici sono
gravemente danneggiati, il teatro Carlo Felice è distrutto, violenti
incendi divampano da Via XX Settembre a Via Galata, a Piazza Corvetto,
a Carignano. Le chiese di Santo Stefano, della Consolazione, di San
Siro sono ridotte in macerie.
1944: Dall'inizio dell'anno i bombardamenti subiscono un
incremento costante fino a raggiungere in giugno e luglio una
frequenza quasi giornaliera. Nel corso dell'anno Genova subisce 51
incursioni terroristiche con un "escalation" crescente: in marzo due,
in aprile sette, in maggio dieci. 19 maggio, un violento bombardamento
diurno provoca 111 morti e 170 feriti, in gran parte vittime del
crollo dei rifugi costruiti negli edifici colpiti o sorpresi mentre
cercavano protezione. Nel mese di giugno sono bombardate Voltri (73
morti), Cornigliano (93 morti) ed il porto (15 morti). Nel mese di
luglio sono ancora colpite le zone portuali e Sampierdarena.In agosto
Genova subisce sedici attacchi aerei, mentre il numero degli allarmi
supera il centinaio: il 14 agosto le sirene suonano 9 volte, il 23
agosto 8 volte. In settembre Genova è aggredita ancora sette volte: i
morti sono oltre 200 e altrettanti i feriti. Il 10 ottobre
un'incursione si abbatte sulla città, ma la vera tragedia di quel
giorno è il crollo della galleria rifugio di San Benigno e la morte
delle oltre 2.000 persone che si trovavano nel suo interno per
sfuggire alle bombe.
1945: L'ultimo inverno di guerra non rallenta gli attacchi del
nemico: nel mese di gennaio Genova è sottoposta a undici
bombardamenti, in febbraio a quattro, in marzo a tre ed in aprile ad
ancora sette incursioni.


Data incursione aerei inviati aerei attaccanti t. di bombe perdite
22/23 ottobre 100 180 0
23/24 ottobre 122 95 166 3
36/7 novembre 73 65 115 2
27/8 novembre 176 143 242 4
13/14 novembre 76 70 127 0
15/16 novembre 78 68 106 0
Totali 637 541 936 9


RINASCITA del 30 Marzo 2001



LE STRAGI DIMENTICATE: LAGO MAGGIORE, SETTEMBRE '44. CADUTI CIVILI E
MILITARI NEL MITRAGLIAMENTO "ALLEATO" DEL BATTELLO MILANO


Adriano Rebecchi


La furia della Guerra, sotto forma di strage terroristica contro
civili indifesi, si abbatté sul Lago Maggiore nel settembre 1944.
La mattina del 25 settembre due aerei inglesi sganciarono un
grappolo di bombe su un gruppo di case di Intra (il Cassinone),
causando 11 morti e numerosi feriti.
In quella zona non vi erano obiettivi militari ma soltanto
abitazioni civili. Poco dopo gli stessi aerei mitragliarono il
battello «Genova» di fronte a Baveno, che aveva a bordo solo civili,
in prevalenza donne e bambini, causando numerosi morti e feriti.
Il giorno successivo gli aerei attaccarono il battello «Milano»,
anch'esso carico di sfollati che si erano imbarcati a Laveno per
raggiungere la sponda piemontese del lago. Solo per caso, a bordo,
c'era un reparto del battaglione «M» Venezia Giulia che stava tornando
dalla scuola di Varese della G.N.R.
Il battello ripetutamente mitragliato si incendiò e, dopo essere
andato alla deriva di fronte alla Punta Castagnola di Verbania, affondò.
Morirono 10 militi dei battaglione «M» Venezia Giulia ed un numero
imprecisato di civili. Numero imprecisato, perché alcuni corpi non
furono recuperati in tempo, prima che il battello affondasse. I loro
resti sono stati fotografati sul relitto del battello ritrovato cinque
anni fa.
Gli attacchi aerei sul lago non furono quindi errori di guerra, ma
vere e proprie stragi terroristiche, fatte per fiaccare ed esasperare
la popolazione e, forse proprio per questo, messe ipocritamente nel
dimenticatoio.
Crediamo sia giunto il momento che le supreme cariche dello Stato,
le quali un paio di anni fa si degnarono di far sapere che erano
spiritualmente vicine alla cerimonia indetta ogni anno dall'UNCRSI,
dal Comitato Caduti Battello Milano e dalla Federazione del Movimento
Sociale intervengano per svegliare le coscienze distratte ed
addormentate delle Autorità Civili e Militari, locali e nazionali.
Infatti, sono stati trovati i miliardi per edificare a Fondotoce
di Verbania la Casa della Resistenza, è sperabile che si trovino pochi
milioni necessari per recuperare e dare onorevole sepoltura ai civili
italiani unicamente colpevoli di non essere morti per mano tedesca o
fascista.

L'ULTIMA CROCIATA N. 7. Novembre 1996


IMPRUNETA: LA POLEMICA Bombardamento alleato. Oltre cento martiri
dimenticati da tutti
IL RICORDO: Solo un'omelia nella cattedrale semideserta
IL FATTO: Due incursioni, ma i tedeschi si erano ritirati

Leandro Giani

IMPRUNETA - Ventisette e ventotto luglio 1944, 27 e 28 luglio
1998. Cinquantaquattro anni per dimenticare ed essere dimenticati.
L'olocausto dei cento imprunetini falcidiati nel corso degli
inspiegabili bombardamenti aerei alleati che si abbatterono
sull'Impruneta oltre mezzo secolo fa, è divenuto riferimento superfluo
se non inutile di una delle tante tragedie causate dall'ultima guerra
mondiale. Nessuno si è preso la briga morale di ricordarlo. Non lo ha
fatto l'Amministrazione comunale, non lo hanno fatto gli enti e le
associazioni che ne avevano il dovere e la possibilità e tutto si è
esaurito in un "passaggio" pietoso di un'omelia pronunciata dal prete
in una Basilica semideserta. Quella stessa Basilica che da quelle
bombe fu rasa al suolo e fra le cui rovine, il 15 agosto del 1944, si
aggirava commosso anche Frederick Hartt, famoso storico dell'arte
americano, il cui commento emblematico di un evento che nessuno è
riuscito a spiegare: "Solo uno storico militare che possa accedere a
tutti i documenti dell'Aviazione - disse - potrebbe chiarire i motivi
dei due attacchi aerei americani sulla città di Impruneta, dopo che i
tedeschi se n'erano andati".
Il "mistero" permane, ma i fatti parlano.

Giovedì 27 luglio '44.
Aerei della 5a squadriglia del 239° stormo bombardarono a tappeto
l'Impruneta. Appartenevano alla Desert Air Force (Daf), gli stessi che
avevano operato nei deserti africani contro l'aviazione e le truppe di
Rommel e di Graziani. La gente aveva trovato precario rifugio contro i
cannoneggiamenti dei giorni precedenti ed era quindi impreparata ad
attacchi aerei: morirono in tanti, come topi, nella tinaia del Fusi in
via Mazzini, nella carbonaia di Granchio in via Cavalleggeri, nella
cantina del Bar Centrale in piazza Buondelmonti. Altri morirono
falciati dalle mitragliatrici mentre fuggivano per le vie del paese.
Cinque minuti dopo iniziò la seconda ondata di morte per mezzo dei
famigerati Kittyhwks sudafricani. Le bombe centrarono stavolta anche
la Casa del Fascio in via Cavalleggeri, causando altri morti.

Venerdì 28 luglio '44.
Un'altra squadriglia piomba sul paese. L'obbiettivo stavolta è
racchiuso nell'area di un kmq. E, alle 13,45 di quel giorno, questo
viene centrato in pieno: si trattava della Basilica. Polverizzata.
Rimasero in piedi solo il porticato che si affaccia sulla piazza, la
facciata e parti consistenti delle mura perimetrali. Solo l'Immagine
della Madonna restò miracolosamente illesa nel prezioso Tabernacolo.
E, come quattro secoli prima era stata "traslocata" a Firenze dagli
imprunetini in fuga per l'arrivo in paese delle truppe spagnole,
l'episodio si ripete. Tornerà all'Impruneta solo nel 1947. Per
chiedere di non dimenticare.

La Nazione Quotidiano del 13 Agosto 1998



E' AMERICANA LA VERITA' SU SAN MINIATO. Nuove rivelazioni sull'eccidio
di San Miniato avvenuto il 22 Luglio 1944 e su quel colpo di mortaio
E' "americana" la verità sulla notte di San Lorenzo. Fu una granata
degli "alleati" e non delle truppe tedesche ad entrare nel rosone del
Duomo e a causare 56 vittime. Gli archivi confermano il tragico errore.


Paolo Paoletti

Dopo il film dei fratelli Taviani, «La notte di S. Lorenzo», i 56
morti accertati e le decine di feriti rimasti colpiti nel Duomo di S.
Miniato al Tedesco, il 22 luglio 1944, sono ormai entrati a far parte
dell'immaginario collettivo degli italiani. Ma la verità del film è
ben lontana da quella storica. Anzi vien da dire che ancora una volta
la realtà supera leggermente la fantasia. Non solo quella scenica.
La verità storica venne "marmorizzata" nel decimo anniversario
della strage e recitava Così: «Questa lapide ricorda nei secoli il
gelido eccidio / perpetrato dai tedeschi il 22 luglio 1944, di 60
vittime (sic!), / inermi, vecchi, innocenti, perfidamente sollecitate
a / riparare nelle cattedrale per rendere più rapido e più superbo il
misfatto».

Il sindaco

Secondo il sindaco di allora quella lapide fu un atto dovuto in
quanto nel 1945 il giudice fiorentino Carlo Giannattasio, incaricato
dal Comune di stendere una relazione finale a conclusione
dell'inchiesta amministrativa, aveva dichiarato che: «la Cattedrale fu
colpita da due granate... una tedesca e l'altra americana... Ma
l'eccidio fu causato esclusivamente dalla granata germanica». Bisogna
aspettare gli anni '80 per assistere ad un'evoluzione dalla vecchia
tesi del «colpo di mortaio tedesco di calibro medio», oggettivamente
difficile da spiegare, visto che la Wehrmacht avrebbe scelto un
espediente piuttosto complicato per compiere una strage, all'accusa
più comprensibile della «responsabilità di aver concentrato...
un'enorme massa di persone in un luogo esposto ai colpi dei mortai e
dei cannoni». Nel 1984 col libro «S. Miniato. 22 luglio 1944» si
cominciava a mettere in dubbio l'importanza di stabilire se si
trattava di granata tedesca o americana. Ma perché la verità dei fatti
non era più importante? Per il semplice motivo che la «vulgata»
nascondeva un bluff durato 53 anni. Vediamo come. Prendiamo la
testimonianza del 6 ottobre 1944 resa davanti alla Commissione
comunale dal Maresciallo dei Carabinieri Conforti; questi dichiara di
aver consegnato «al capitano americano Ruffo due schegge». L'ufficiale
appartiene alla 91a divisione americana ed è colui che ha fatto il
rapporto preliminare prima dell'insediamento della Commissione
ufficiale d'inchiesta statunitense. La relazione fa parte degli atti
investigativi da noi reperiti nel febbraio 1994 ai National Archives
di Washington. Stranamente (o ovviamente) in questo rapporto non si fa
cenno a reperti acquisiti. Possiamo presumere che l'ufficiale,
rendendosi conto di avere in mano una spoletta americana, intuì
immediatamente che quella era la prova provata della responsabilità
colposa degli artiglieri della sua divisione.
Per uscire da questa situazione quanto meno imbarazzante decise di
non segnalare ai superiori il ritrovamento della spoletta ma non se la
senti neppure di distruggerla. Al di là di queste illazioni, è un
fatto che due settimane dopo la segnalazione del maresciallo Conforti
arrivava alla commissione comunale la «perizia» del tenente di
fanteria americano Charles Jacobs. Il poverino per far quadrare il
cerchio aveva dovuto inventarsi una granata tedesca assassina ed una
innocua americana. A riprova della sua buona fede (e della sua
ignoranza) forniva anche il DNA della bomba statunitense: spoletta
«Fuse P. D. M43». Trattandosi di materia tecnica ci siamo rivolti a
due generali, Sabino Malerba e Ignazio Spampinato e ad un colonnello,
Massimo Cionci, tutti d'artiglieria, ma con specializzazioni diverse
(balistica, esplosivi e munizionamento). Il responso dei tre è stato
unanime, quella «spoletta Fuse a percussione (P. D.) avente il numero
di modello 43 non è mai esistita». Inoltre, dice l'esperto di
munizionamento, col. Cionci, «è impossibile che il proietto munito
spoletta del tipo PD fosse un fumogeno». «La scritta punzonata sulla
spoletta poteva essere soltanto "P. D. M48"».

L'equivoco

La spiegazione è semplice: con gli urti l'«8» era stato scambiato
per un «3» e da qui era nato l'equivoco. Dunque la prova del DNA
diceva che l'unica spoletta rinvenuta in chiesa apparteneva ad un
proiettile «scoppiante» americano. Ma perché si dovette inventare il
fantomatico proiettile tedesco? Semplicemente perché in quel giorni di
guerra americani e italiani morivano combattendo contro l'occupante
nazista. E nel 1944- 1945 quella verità non si poteva dire. A nostro
avviso con la «perizia» Jacobs i membri della commissione d'inchiesta
italiana intuirono subito la verità e cercarono in tutti i modi di
venire incontro alla tesi americana, che contentava gli americani e,
tutti i partiti politici dell'epoca. Il 21 settembre 1944, giorno
dell'insediamento della commissione comunale d'inchiesta, questa
all'unanimità dava incarico all'ing. Aurelio Giglioli di presentare
una descrizione dello stato attuale del fabbricato della Chiesa del
duomo con relativa pianta». Il 10 ottobre lo stesso ingegnere veniva
incaricato di prendere anche «delle foto all'interno e all'esterno del
Duomo». Ma cinque giorni dopo arrivava la verità confezionata dal
tenente americano: gli schizzi e le foto dell'ingegnere socialista non
servivano più, anzi diventavano estremamente pericolose. Si sarebbe
potuto vedere quello che noi scopriremo 52 anni dopo nelle carte della
Curia: l'intelaiatura in ferro che sostiene la vetrata del rosone e
l'intelaiatura lignea della finestra da cui era entrato il supposto
proiettile assassino tedesco, non presentavano segni di effrazione.
Erano rimasti intatti, mentre quello da cui era entrato il proiettile
americano abbisognò dell'intervento del fabbro!
Il fatto incontrovertibile è che l'ing. Giglioli non solo non
consegna né schizzi né foto ma dal 21 ottobre abbandona i lavori della
Commissione.
L'ing. Giglioli non è il solo a lasciare la commissione. Si
dimette, questa volta ufficialmente, anche l'azionista Ermanno
Taviani, l'assessore alla Cultura che ha ideato e fortemente voluto
quella commissione amministrativa.

La commissione

E, guarda caso, presenta le dimissioni solo da membro della
commissione, ma mantiene la carica di assessore all'Educazione e alla
Cultura. Insomma più si scava e più vengono fuori misteri. Torniamo
all'enigma delle foto richieste all'ing. Giglioli e mai consegnate: il
29 maggio 1945 la Giunta approvava l'acquisto di 62 foto di Cesare
Barzacchi per la somma di 16.000 lire. Perché spendere una cifra così
spropositata (tra i 15 e i 20 milioni di oggi!) quando le stesse foto
si potevano avere a prezzo di costo 8 mesi prima? Si doveva forse
coprire la magagna che si stava formalizzando con la relazione
Giannattasio? Il dubbio è che il Comune, conscio di aver imboccato una
strada senza uscita, quella di sostenere un falso imposto dalla guerra
appena finita, era costretto ad acquistare i negativi e a togliere
dalla circolazione le altre possibili prove della responsabilità
americana.

Le prove

I misteri sulle foto Barzacchi non finiscono qui. Come mai nella
primavera 1984 il Comune è costretto a riacquistare quelle foto che 39
anni prima aveva profumatamente pagato? Succede che quando
l'amministrazione decide di celebrare il quarantennale dell'eccidio
non trova più i negativi e deve pagare 5.726.000 lire alla foto-ottica
Gallerini per 60 positivi. Nel 1996 le nostre ricerche ci hanno
portato a ritrovare l'album originale con le fotografie firmate dal
Barzacchi: due pagine risultano vuote. O meglio, due foto sono state
evidentemente scollate. Secondo noi, distrutte quelle due foto
compromettenti l'album perdeva qualunque interesse e così poteva anche
uscire dall'archivio comunale. Per amore della verità storica
rispondiamo alla tesi dell'assessore Marianelli e dell'attuale sindaco
Alfonso Lippi, che nel 50' anniversario della strage, aveva dovuto
metter da parte la «verità» del Giannattasio del 1945 del «colpo di
mortaio di calibro medio», oggettivamente difficile da spiegare e da
capire, e ripiegava sull'accusa più comprensibile e rappresentabile
all'opinione pubblica del "colpevole concentramento della popolazione
nel punto più esposto"; intanto non fu il Comando tedesco a decidere
di concentrare la folla in Duomo, ma fu il vescovo Giubbi a offrire
l'ospitalità della Chiesa. Si veda la lettera inviata in Vaticano ed
in copia alla Commissione d'inchiesta. «Il Vescovo -scrive in terza
persona, ndr- fece osservare al capitano Tedesco: ... che la
popolazione non avrebbe potuto per le ore 8,00 essere tutta radunata
in piazza dell'Impero. Allora l'ufficiale tedesco dispose che la
radunata avvenisse, oltre che in quella piazza, anche nella piazza
della Cattedrale e che, entro la Chiesa si fermassero soltanto i
vecchi, i malati e i bambini. Gli altri rimanessero fuori». Se
qualcuno avesse letto la deposizione resa il 14 agosto 1944, davanti
alla Commissione Militare americana, da don Guido Rossi avrebbe capito
che: «... a seguito delle richieste del Vescovo la folla entrò in
chiesa». Il 31-10-1944 Armando Colombini ribadiva lo stesso concetto
davanti alla commissione d'inchiesta comunale: «Successivamente il
Vescovo disse che oltre ai bambini, alle donne aveva ottenuto il
permesso di fare entrare in chiesa anche gli uomini».
Dunque i tedeschi volevano far sgombrare la popolazione verso la
campagna, ma siccome i vecchi, le donne e i bambini avrebbero
rallentato la marcia, ordinarono che fossero lasciati indietro. Ma il
vescovo per non smembrare le famiglie ottenne che tutti fossero
raccolti provvisoriamente tra le mura sicure del Duomo. L'ultimo
baluardo di assessori e sindaci è questo: in ogni caso i tedeschi sono
i responsabili perché il Duomo era il luogo più esposto. In verità il
Duomo sarebbe stato «pericolosamente esposto» solo se a sparare fosse
stato il cannone di un carro armato, che spara «con una traiettoria
talmente tesa da potersi assumere come rettilinea», per usare le
parole del gen. Malerba. Anzi, nonostante le apparenze, il Duomo si
dimostrò luogo sicuro perché le bombe cadute sul tetto e sulle
cappelle non causarono morti e solo per un caso irripetibile un colpo
centrò un rosone. Ed il fato volle che quel maledetto proiettile fosse
a scoppio ritardato e che dopo due rimbalzi scoppiasse per aria, nel
punto più affollato della cattedrale. E' corretto allora il testo
della stele, sistemata nel 1994 dall'amministrazione sul prato del
Duomo, dove si legge: "A ricordo delle 55 (!) persone uccise dalla
barbarie della guerra in questa cattedrale il 22 luglio 1944". Un
testo che non si concilia perciò con la faziosa lapide del 1954.

LA NAZIONE Quotidiano del 24 Luglio 1997
 
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