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Considerazioni giuridiche della RSI

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Fiamma nera
view post Posted on 24/4/2009, 23:47




Tratto da FNCRSI


In questi ultimi tempi, soprattutto in seguito all'insabbiamento della proposta di legge di iniziativa parlamentare che voleva estendere a coloro che militarono nella Repubblica Sociale Italiana la qualifica di combattenti, è tornata in auge la tematica della qualificazione giuridica del governo di Salò.
Personalmente non condivido, poiché non ancorata ad alcun dato positivo, la tesi sostenuta da alcuni costituzionalisti (Balladore Pallieri, Gueli) secondo la quale la RSI altro non fu se non uno Stato-fantoccio, presupposto indispensabile per l'occupazione militare tedesca nell'Italia centro-settentrionale. Su questa linea, si è collocata la maggior parte degli storici contemporanei che vede nell'ordinamento di Salò un vero e proprio regime collaborazionista dei nazisti, incapace di attuare quel programma socialisteggiante propugnato durante il Congresso di Verona del novembre 1943. Ma, in realtà, ci troviamo innanzi ad un'impostazione di parte, coniata dalla ideologia della resistenza, e non aderente alla realtà dei fatti.
Sul piano storico, ha osservato un insigne costituzionalista quale il prof. Livio Paladin, «sono esistiti ed esistono tutt'oggi i più vari regimi fondati sull'appoggio di altri Stati, che tuttavia mantenevano e mantengono una loro originarietà ed indipendenza».
In primo luogo, le norme promanate dalle fonti di produzione del diritto della cosiddetta Repubblica di Salò, durante il biennio 1943-1945, hanno sempre ottenuto media obbedienza da parte di coloro che operavano negli ambiti spazio-territoriali del governo repubblicano a riprova, come confermato dalla teoria generale del diritto, della effettività dell'ordinamento giuridico in questione o meglio, in altri termini, della validità giuridica delle sue disposizioni normative; aspetto difficilmente realizzabile in seno ad uno Stato a sovranità puramente teorica.
In secondo luogo, è significativo come il III Reich tedesco abbia riconosciuto diplomaticamente, e non solo sul piano formale, la Repubblica Sociale di Benito Mussolini attuando uno reale scambio di ambasciatori (a Berlino, andò Filippo Anfuso dopo essere stato richiamato dalla sede diplomatica di Budapest; per il governo di Salò, si insediò Rudolph Rahn già ambasciatore tedesco a Roma), segno evidente e tangibile della non volontà di considerare la RSI una semplice "longa manus" dello Stato tedesco.
A questo punto, dopo aver demolito, con argomentazioni chiare e precise, la tradizionale ed errata visione dello Stato Fascista Repubblicano, risulta necessario chiarire la qualificazione di suddetta realtà alla luce degli elementi giuspubblicistici di cui oggi disponiamo.
La definizione più corretta è sicuramente quella che vede nella restaurazione mussoliniana a Salò, un governo locale di fatto (Giannini). Infatti, se è vero che non si può parlare di Stato nell'accezione moderna del termine in quanto il nuovo ordinamento fascista si caratterizzava per una sovranità limitata e circoscritta ad una porzione del territorio italiano (la parte rimanente era soggetta alla pseudo-sovranità del Regno del Sud), è anche vero come, dati alla mano, non si può negare la presenza di un apparato esecutivo-amministrativo-legislativo, munito di Dicasteri abilmente distribuiti nell'ambito del proprio territorio per un maggior controllo dello stesso (la Presidenza del Consiglio a Bogliaco, il Ministero dell'Interno a Maderno, il Ministero della Difesa a Cremona, il Ministero delle Corporazioni e dell'Economia a Verona, il Ministero dell'Agricoltura a Treviso, ecc.) ed in grado, anche se in maniera non sempre piena, di coordinare la propria azione politica con le iniziative militari della Wehrmacht.
A sostegno di quanto ora affermato, si può portare, a titolo esemplificativo, il tentativo di avvio, da parte della Repubblica Sociale, di un grande programma di socializzazione, non completamente attuato a causa degli interessi bellico-militari delle autorità germaniche, ma volto a ridefinire prepotentemente ed in maniera radicale i rapporti tra capitale e lavoro e tra economia e Stato: la ripartizione degli utili dell'impresa tra fondo di riserva (a favore dei lavoratori) e capitale azionario, la partecipazione dei lavoratori stessi ai consigli di gestione delle fabbriche, ecc.
Inoltre, esiste anche un dato giuridico-amministrativo inoppugnabile che confermerebbe il carattere realmente governativo e sovrano della Repubblica di Salò: il D.lgs.lgt (ossia Decreto legislativo luogotenenziale) 5 ottobre 1944 n. 249 sull'assetto della legislazione nei territori liberati (o dovremmo forse dire occupati con il tradimento), ha salvato la validità e l'efficacia degli atti di ordinaria amministrazione della RSI, perché privi di motivazioni ed implicazioni politiche, differenziando, de facto, gli atti del governo repubblicano mussoliniano in ragione del loro grado di politicità. Dunque non è propriamente corretto sostenere che il solo continuatore dello Stato italiano fu il Regno del Sud dal momento che il riconoscimento dell'attività amministrativa della Repubblica Sociale Italiana risulterebbe sintomatico della presenza di una realtà governativa pienamente sovrana nel proprio territorio ed espressione di coloro i quali non vollero riconoscersi nella compagine governativa del generale Pietro Badoglio. Infine, a conferma di quanto il fascismo repubblicano non si considerasse un mero esecutore delle volontà germaniche ma protagonista attivo nella ricostruzione e nella salvezza dell'Italia dopo il vile tradimento di Casa Savoia, è opportuno ricordare l'annotazione, in data 17 settembre 1943, del Ministro della Propaganda tedesca, Josef Gòbbels, laddove mette in evidenza il ferreo convincimento del Duce non solo di ricostituire il partito fascista e porre le fondamenta per la ricostruzione dello Stato partendo dal più basso gradino amministrativo, ma anche il grande proposito di convocare un'Assemblea Costituente che avrebbe delineato la nuova forma di Stato e di Governo della Repubblica Sociale Italiana. (1)
I Costituenti, riunitisi, per la prima volta, il 22 giugno 1946 e chiamati a redigere la Carta Costituzionale del nuovo ordinamento repubblicano in conformità al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, non seppero e non vollero tener conto di questa dicotomia istituzionale comportante una netta ed evidente divisione di sovranità tra due realtà governative opposte ma operanti, entrambe, all'interno del territorio nazionale italiano nell'arco di tempo compreso tra il mese di settembre 1943 ed il mese di aprile 1945. Sono state le forze politiche che si riconoscevano nei Comitati di Liberazione Nazionale a rovesciare il dato storico, facendo prevalere non la verità dei fatti ma unicamente la forza dell'ideologia antifascista. La stessa Costituzione nel sancire, all'art. 3 primo comma, il principio di eguaglianza formale implicante il divieto di discriminazioni «di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali» impedisce alle azioni positive ed ai provvedimenti legislativi di divenire, a loro volta, fonte di ingiustizia, dando luogo a casi di "discriminazione all'incontrario" (la c.d. reverse discrimination secondo la famosa espressione coniata dalla giurisprudenza costituzionale americana della Corte Suprema) proprio come nella fattispecie di cui all'inizio della presente trattazione, dal momento che il legislatore nazionale ha optato per la non estensione ai combattenti di Salò, decisi a riscattare l'infamia del tradimento del 25 luglio 1943, lo status giuridico di combattenti a cui giustamente e doverosamente riconoscere i benefici già riservati a coloro che militarono all'interno dell'intoccabile fenomeno resistenziale. Ma l'elogio più alto, meno retorico e più autentico dello Stato fascista Repubblicano, per il quale i reduci e le loro famiglie debbono essere orgogliosi, venne da uno dei suoi più audaci sostenitori: Alessandro Pavolini, segretario del partito fascista, il teorico di quello che lo storico Renzo De Felice definì "il culto della coerenza": la Repubblica Sociale era «nata nella tragedia» ma anche nella «purezza» dell'animo «di chi si getta nella mischia e prende partito senza calcolo alcuno delle probabilità».


Commento della FNCRSI


La prima considerazione che ci sentiamo di fare è molto semplice. Il Governo Badoglio nasce da un Colpo di Stato, mai ratificato da qualche Organo di Stato a ciò delegato. Si tratta di un Governo d’Emergenza. Poco cambia che questo Colpo di Stato sia stato instradato dal Gran Consiglio del 25 Luglio, del quale, lo abbiamo detto e lo ripetiamo, sappiamo ben poco. Un Gran Consiglio durato nove ore del quale nessuno dei partecipanti ha ritenuto di dover rilasciare ampio ed esaustivo resoconto.
Badoglio, o chi per lui, NON HA MAI DENUNCIATO l’alleanza con i tedeschi. Quindi non ha mai compiuto un atto legislativo di convalida delle ragioni del Colpo di Stato concordato privatamente con la monarchia sabauda che, proprio perché si è mossa nell’interesse particolare ed antinazione, e solo per far sopravvivere la dinastia, non avrebbe potuto in alcun modo rappresentare l’intera nazione. Tant’è vero che questa era finita allo sbando.
Al contrario, è andato avanti a suon di menzogne. Ignobili menzogne.
Conclusesi con la fuga, che di fuga si tratta anche se concordata con i tedeschi.
Dopo la fuga, nella "Terra di Nessuno", che rappresenta la maggior parte del territorio nazionale, viene ricostituito un Governo da parte di Mussolini e legittimato dalla fondamentale necessità di far funzionare la "Macchina dello Stato". Gli Stati moderni, infatti, sono strutturati da un ingranaggio che, nell’interesse di tutti i cittadini ed indipendentemente dal colore politico di chi governa, devono poter funzionare.
Il Governo della RSI ha dimostrato di saper far funzionare l’ingranaggio statale. Il ché costituisce un autentico miracolo, se paragonato alla disfunzione sistematica che i cittadini italiani attualmente percepiscono ogni giorno sulle loro spalle.
Essendo pertanto una necessità l’esistenza di un governo, risulta a tutti che il governo della RSI, al momento della sua costituzione, aveva giurisdizione su una fetta molto vasta del territorio nazionale. A seguito dell’avanzata delle truppe anglo-americane questo territorio si è via via ristretto, ma ciò non cambia i termini del problema, essendo quello della RSI l’unico governo legittimo sul territorio nazionale.
Infatti, appena costituito tale governo, sono state ricostituite anche le Forze Armate, strumento "visibile" della sovranità statale, equipaggiate con divise ed armi italiane. Sotto comando italiano. Anzi, per un certo periodo le operazioni belliche furono sottoposte al comando del Maresciallo Graziani, il quale comandava anche unità tedesche. Al contrario, le unità italiane aggregate alle truppe d’invasione vestivano divise inglesi, e queste divise sono rimaste tali fino ad oggi, a documentare la persistenza di una subordinazione evidente a tutti i concittadini. Tale essendo il ruolo delle divise militari.
- Ma non esisteva solo un esercito regolare. C’era anche un esercito di volontari, il cui numero, altissimo, non è paragonabile ad altri eserciti ed altri sistemi politici, di questo e d’altri tempi. Basti pensare che la sola X Mas ebbe 30.000 volontari, poi sistemati in altre unità operative.
- Esistevano poi le formazioni fasciste, fra le quali occorre annoverare la Guardia Nazionale Repubblicana, la G.I.L. ed il Corpo Femminile.
- Infine non possiamo dimenticare le Brigate Nere, ovvero l’espressione militarizzata del P.F.R.
- Insomma, alla fine delle ostilità erano ancora in armi 800.000 persone, la qualcosa ci fa come minimo dichiarare che quanto raccontato finora sugli eventi bellici del 1945 sia piuttosto falso. Anzi, del tutto inventato. Giusto per chiarire la reale consistenza del consenso popolare alla guerra del «sangue contro l’oro».

Va infine ricordata la Sentenza del Tribunale Supremo Militare Italiano n. 747 del 26.04.1954, che va letta per intero, secondo la quale i Combattenti della RSI sono combattenti a tutti gli effetti. (Anche se questo Regime non vuole riconoscere loro questa qualifica. Comportamento che ci lascia del tutto indifferenti tale è il disprezzo che noi abitualmente nutriamo per quest’accozzaglia)

Sempre per rimanere in ambito militare, e dopo aver sottolineato l’assenza di qualsiasi autonomia operativa per i combattenti del Regnicolo del Sud, va ricordato un avvenimento salito di recente agli onori delle cronache. Forse qualcuno, fra i nostri lettori, ricorderà che l’Italia di Badoglio aveva dichiarato guerra nientemeno che al Giappone. Un ricercatore ha cercato fra le carte diplomatiche l’eventuale trattato di pace, ma non lo ha trovato. Gli è stata data una spiegazione del tutto mortificante, ma vera. Poiché il governo del Regnucolo del Sud non aveva alcuna autonomia, anche la dichiarazione di guerra al Giappone non aveva alcun significato. Pure velleità infantili. È come non fosse stata mai dichiarata, e quindi non esisteva alcuna necessità di un trattato di pace. Che quindi non è stato mai stipulato.

E qui entriamo nel vivo della questione. Quella della Sovranità, che possiamo risolvere in poche parole.
Nella società moderna, la vera Sovranità è quella monetaria. Premesso che nell’Italia odierna la Sovranità Monetaria NON ESISTE, siamo tutti SUDDITI del POTERE FINANZIARIO, mentre nel territorio governato dalla RSI i cittadini usavano Moneta di Stato non svalutata, e quelli dell’Italia invasa pagavano i servizi e le merci con le AMLIRE, moneta d’occupazione svalutata ed ulteriormente svalutabile in funzione della massa in circolazione, da stabilirsi a discrezione delle autorità d’occupazione.

Partendo da questa realtà inconfutabile, si arriva ad una conclusione del tutto naturale. Poiché su di un territorio ha giurisdizione lo Stato sovrano e non altri, è chiaro che la RSI doveva avere giurisdizione anche sui territori nazionali invasi, e non il contrario. Tant’è vero che, anche a guerra finita, il cosiddetto Regno d’Italia, gestito da Umberto di Savoia, non contava un bel niente. Inutile spiegare il perché. I documenti si trovano con facilità. Lo stesso Umberto, a referendum completato, dovette fare i bagagli alla svelta su imposizione dell’ammiraglio Stone. Identiche considerazioni potevano esser fatte in relazione allo Stato della Chiesa dopo l’entrata, manu militari, degli italiani in Roma. E fino alla Conciliazione, cioè al 1929, la Chiesa aveva il diritto di aspirare alle terre perdute nel 1870.
Ma da questa constatazione ne emerge un’altra. Poiché il legittimo Governo della RSI non ha firmato alcun trattato di pace perché i suoi membri sono stati assassinati, secondo un metodo anglosassone perpetuato anche ai giorni nostri, e Graziani, nella sua veste di Comandante in Capo delle Forze Armate, si è limitato ad ordinare il «cessate il fuoco», dal punto di vista giuridico le cose stanno oggi per noi com’erano nel 1945.
Tanto più che le «truppe d’occupazione anglo americane» continuano la loro occupazione del territorio nazionale con oltre 100 basi militari, mai abbandonate neppure dopo la caduta del Muro di Berlino, imponendo di volta in volta i governanti che più si attagliano alle loro esigenze del momento e mascherando queste banali operazioni di colonialismo attraverso una costante lobotomia del cervello degli italiani.

Quanto scritto fino a questo momento ci invita ad illustrare ancora un’altra situazione.
La Costituente, nel redigere la Costituzione, ignorò di proposito la realtà dell’occupazione militare alleata e la conseguente assenza di Sovranità e pertanto nessun consenso è venuto dagli italiani all’occupazione stessa. Che pertanto è, dopo oltre mezzo secolo, del tutto illegittima. Attuata soltanto con l’uso della forza. (Oltre 100 basi sul territorio).
Ma questo fatto basilare, che inficia qualsiasi elemento di legittimità di questo Regime, ha un’altra ripercussione gravissima. Infatti l’Italia è il paese che non ha avuto la possibilità di esprimere un’opinione popolare mediante referendum riguardo alle scelte relative all’edificazione dell’Unione Europea. Cioè i due referendum che altri europei hanno votato, come quello per l’adozione dell’Euro e quello per l’approvazione della Costituzione.
Occorre riflettere su questo aspetto, molto grave, che potrebbe essere il riflesso di una situazione d’occupazione militare, tenuta nascosta nelle sue conseguenze, e che esclude in ogni modo la possibilità d’espressione di una qualsiasi «volontà popolare».

Carattere della Repubblica Sociale Italiana

«...Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 la sovranità di fatto o meglio l'autorità del potere legale, fu nella parte dell'Italia, ove risiedeva il Governo legittimo, esercitata dalle Potenze alleate occupanti. Non poteva altrimenti essere, dal momento che, durante il regime di armistizio, permaneva lo stato di guerra e l'occupante era sempre giuridicamente "il nemico"».
«Basti considerare che tutte le leggi e tutti i decreti, compresa la legge sulle sanzioni contro il fascismo (ordinanza n.2 della commissione alleata in data 27 aprile 1945), ricevevano piena forza ed effetto di legge a seguito di ordini degli Alleati). Pertanto, il governo del re era un governo che esercitava il suo potere "sub condicione", nei limiti assegnati dal Comando degli eserciti nemici».
«Le situazioni contingenti che ebbero a verificarsi per la dichiarazione di guerra alla Germania, per la cobelligeranza e per i comuni interessi esistenti tra lo Stato italiano e gli Stati alleati, non possono mutare e trasformare la situazione giuridica che si era creata secondo quelle che erano le regole del diritto internazionale».
«Se questi erano gli aspetti giuridici della Sovranità nell'Italia del Sud, non poteva per certo il legittimo Governo italiano, che aveva solo quella limitata potestà che le potenze occupanti gli concedevano, interferire nell'Italia del Nord e del Centro, dove gli alleati non erano ancora pervenuti. La autorità del potere legale era colà in altre mani; una nuova organizzazione politica si era creata, con un proprio Governo, e, cioè, la Repubblica Sociale Italiana, riconosciuta come Stato soltanto dalla Germania e dai suoi alleati».
«Indubbiamente tale nuovo Stato non poteva essere considerato soggetto di diritto internazionale, con gli attributi della piena sovranità dagli Stati che non lo avevano riconosciuto; esso assumeva, almeno formalmente, la piena personalità giuridica solo di fronte agli Stati che gli avevano conferito detto riconoscimento. Tuttavia non poteva, nel campo del diritto delle genti, negarsi che comunque, un'organizzazione statuale, sia pure di fatto, esisteva, avente capacità giuridica propria e una propria sfera, se pur limitata, di autonomia, la quale ultima, si rilevi, non è sinonimo di indipendenza e di sovranità che altrimenti dovrebbe parlarsi di Stato di diritto».
«È comunemente accettato nella dottrina internazionalistica che, nel caso si verifichi un movimento insurrezionale, sussiste un governo di fatto in quella parte di territorio assoggettato al controllo degli insorti e sottratta al controllo del Governo legittimo».
«Quest'ultimo perde, "de facto", le attribuzioni e le competenze di diritto internazionale, condizionate all'esercizio della potestà territoriale, essendo ad esso succeduto, in quella parte di territorio, il governo degli insorti».
«Indubbiamente pressoché immutato era rimasto l'ordinamento giuridico esistente nella Repubblica Sociale Italiana: gli stessi codici, le stesse leggi venivano applicati dagli organi del potere esecutivo e dalla Magistratura. L'organizzazione statuale si manteneva in piedi a mezzo delle autorità preposte (dei Prefetti, delle Corti e dei Tribunali, degli uffici esecutivi, delle Forze Armate e di Polizia)».
«Evidentemente l'Autorità tedesca ebbe allora ad inserirsi nella vita italiana del centro-nord, con i suoi princìpi e i suoi durissimi metodi di lotta; indubbiamente le autorità della Repubblica Sociale Italiana subirono talvolta la pressione e le direttive del loro alleato, pur opponendosi spesso con energia alle sue iniziative; ma tutto ciò non può mutare la posizione giuridica della Repubblica Sociale Italiana, di essere un governo di fatto, sia pure a titolo provvisorio, che manteneva relazioni diplomatiche con alcuni Stati e intrecciava rapporti internazionali, quanto meno ufficiosi, con molti altri che pur non l'avevano riconosciuta».
«La storia di tutte le guerre insegna che molto spesso, anche quando trattasi di alleati, che insieme combattono sul territorio appartenente ad uno di essi, lo Stato più forte e più potente finisce col prendere le maggiori iniziative, interferendo nella vita e nella potestà dello Stato meno forte, imponendo le sue direttive e, talvolta, la sua forza e i suoi tribunali (esempio: corpi di spedizione alleati nella guerra 1915-1918 in territorio greco). Tuttavia la situazione di fatto che viene a crearsi tra l'alleato più potente e quello meno forte non incide sul carattere formale e giuridico dell'alleanza. Da ciò consegue che, nella specie, non basta rifarsi ai metodi tedeschi, per dedurne che essi erano gli occupanti e per negare alla Repubblica Sociale Italiana il carattere di un Governo di fatto; né la situazione fluida, durata pochi giorni, tra l'8 e il 23 settembre 1943, giorno in cui Mussolini ebbe a proclamarsi capo dello Stato fascista repubblicano e capo del governo, autorizza a ritenere che solo un regime di occupazione si sia costituito nel centro-nord dell'Italia ad opera delle Forze Armate tedesche. Si dimentica in tal modo che anche le Forze Armate alle dipendenze di Mussolini e di Rodolfo Graziani occupavano il territorio suddetto, che l'ordinanza Kesselring, in data 11 settembre 1943, che assoggettava il territorio italiano alle leggi tedesche, cessò di avere efficacia proprio con il 23 settembre 1943, quando, se pur non ancora proclamata la Repubblica Sociale Italiana (che nacque il 25 novembre 1943), esisteva già il cosiddetto Stato fascista repubblicano».
«Certo è che in quei giorni, la sovranità dello Stato italiano si ridusse solo ad una consistenza formale e giuridica: il re aveva lasciato la capitale e con il suo Governo aveva, a seguito dell'armistizio, preso contatto con gli alleati, nel nobile intento di salvare l'unità e l'indipendenza d'Italia. Il Governo legittimo potè così incominciare a consolidarsi, secondo le direttive degli alleati, e a lanciare i suoi ordini e i suoi proclami».
«Dal parallelo che scaturisce tra il regime del centro-nord e quello del sud appare, adunque, che "de facto", il Governo legittimo e quello di Mussolini avevano una libertà limitata: "de jure", era peraltro, preclusa al governo legittimo, ogni indipendenza, mentre, invece, tale formale preclusione non esisteva per la Repubblica Sociale Italiana che emanava le sue leggi e i suoi decreti senza l'autorizzazione dell'alleato tedesco».
«Quando vuol darsi una definizione giuridica di una organizzazione insurrezionale è, pertanto, necessario non solo prendere in esame il suo ordinamento giuridico e la sua sfera di autonomia nel territorio ad essa soggetto, ma guardare altresì detta organizzazione al cospetto degli altri Stati, con particolare riferimento al governo legittimo. Se lo Stato nazionale domina, nonostante l'insurrezione, la situazione che si è creata, e ha la possibilità e la capacità di esaurirla in breve termine, allora può discutersi e forse anche negarsi l'esistenza di un governo di fatto insurrezionale; ma quando tale capacità non esiste, quando il governo legittimo è addirittura alla mercè del nemico, e l'autorità del governo insurrezionale si consolida nei suoi ordinamenti, e la sua vita è di non breve durata, allora non è più possibile negare a quest'ultimo il carattere di un governo di fatto, secondo i princìpi comunemente accolti nella dottrina internazionalistica».
«Pertanto, deve concludersi che la Repubblica Sociale Italiana era retta da un governo di fatto, dalla quale nozione scaturiscono le conseguenze giuridiche che tra breve saranno esaminate».
«Per esaminare a fondo il problema occorre rifarsi all'origine della belligeranza. Quando fu pubblicato l'armistizio dell'8 settembre 1943, una parte delle Forze Armate italiane non lo accettò e proseguì nelle ostilità contro il nemico, e, cioè, contro gli alleati che avevano messo piede in Italia».
«Indubbiamente i comandanti dei reparti che non obbedirono agli ordini del governo legittimo violarono la norma di cui all'articolo 168 codice penale militare di guerra, con cui si punisce l'arbitrario prolungamento delle ostilità».
«Questo fatto non sopprimeva, di fronte agli alleati, la qualità di belligeranti che spettava a tutti i combattenti; di fronte agli anglo-americani e loro alleati, tuttora nemici, anche in clima di armistizio non potevano i combattenti italiani - sia pure ribelli agli ordini del Supremo Comando italiano - perdere il loro carattere di belligeranti, così come è stabilito nelle convenzioni internazionali e come è comunemente accettato».
«Mai è avvenuto nella storia di tutte le guerre, di negare tale caratteristica alle truppe che non accettano la resa. Colpevoli i combattenti che non obbedirono agli ordini del re, di fronte allo Stato italiano, ma sempre soldati e belligeranti di fronte al nemico».
«I combattenti che non si arresero ritennero di dover mantenere fede all'alleato tedesco, e fronteggiarono a viso aperto l'avversario, venendo dal medesimo fino all'ultimo trattati come combattenti e come belligeranti».
«L'articolo 40 del citato regolamento annesso alla Convenzione dell'Aja dichiara che ogni grave infrazione dell'armistizio, commessa da una delle parti, dà diritto all'altra di rinunciare e, in caso d'urgenza, anche di riprendere immediatamente le ostilità. Nella specie che ci occupa non ci fu infrazione da parte dello Stato italiano, ma solo da parte di considerevoli unità, di terra, di mare, e dell'aria. Ed allora il conflitto non ebbe a cessare: gli alleati fronteggiarono egualmente truppe tedesche e italiane, e solo più tardi, molto stentatamente, si attuò la cobelligeranza coi reparti regolari italiani, fiancheggiati dalle formazioni partigiane».
«Ciò appartiene alla Storia! Non può, pertanto, negarsi, alla stregua dell'articolo 40 suddetto, che gli appartenenti alle Forze Armate della R.S.I. abbiano conservato la qualità di belligeranti, né è possibile concepire che tali Forze avessero detta caratteristica solo di fronte agli alleati e non al cospetto dei cobelligeranti italiani».
«Ecco come si spiega il trattamento di prigionieri di guerra concesso dagli alleati - d'accordo col Governo legittimo italiano - ai militari delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana, sin dai primi mesi del 1944. Ciò vale a smentire quelle teorie unilaterali che, ormai, sono del tutto superate, con cui si vuole negare il carattere di belligeranti ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana, argomentando in maniera erronea e fallace, in base alle norme della legislazione italiana post-fascista, che, come si è rilevato, non ha, sotto il profilo del diritto internazionale, alcuna veste e alcuna autorità al riguardo».
«Belligeranti, adunque, erano i combattenti del Centro-Nord, anche se ribelli o insorti e, quindi, punibili secondo il diritto interno in base allo svolgimento di regolari giudizi».
«Ma pure da un altro punto di vista si conferma la tesi suesposta. Accertato che la Repubblica Sociale Italiana concretava un governo di fatto, soggetto di diritto internazionale, entro certi limiti, non poteva, sotto questo riflesso, negarsi ai suoi combattenti la qualifica di belligeranti. Anche a voler considerare, per dannata ipotesi come fa la sentenza impugnata, i reparti della RSI quali milizie alle dipendenze del tedesco invasore, egualmente dovrebbe ad essi riconoscersi la qualifica di belligeranti, perché, comandati da capi responsabili, portavano segni distintivi e riconoscibili a distanza, apertamente le armi, e si conformavano, per quanto era possibile, nei confronti dell'avversario belligerante, alle leggi e agli usi di guerra (i partigiani non erano belligeranti, come si vedrà in seguito); né può far velo a tale soluzione giuridica la caratteristica insurrezionale di detti reparti, poiché l'articolo 1 della Convenzione dell'Aja non fa distinzioni di sorta. D'altronde l'interpretazione pressoché autentica di questi princìpi è fornita dall'articolo 4 della Convenzione di Ginevra, 8 dicembre 1949, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra, convenzione che ha reso normativo quello che era già accettato nell'attuazione pratica del diritto internazionale bellico».
«Infatti il n. 2 del detto articolo 4, prendendo evidentemente le mosse dall'articolo 3 del Regolamento annesso alla Convenzione dell'Aja il quale dichiara che gli appartenenti alle forze armate delle parti belligeranti hanno diritto, in caso di cattura, al trattamento dei prigionieri di guerra, precisa che "sono prigionieri di guerra i membri delle altre milizie e i membri degli altri corpi volontari, ivi compresi quelli dei movimenti di resistenza organizzati, appartenenti ad una parte in conflitto e agente fuori e all'interno del loro territorio, anche se questo territorio è occupato, purché queste milizie o corpi volontari, ivi compresi i movimenti di resistenza organizzati, adempiano le condizioni seguenti: a) avere a capo una persona responsabile per i suoi subordinati; b) avere un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; c) portare apertamente le armi; d) conformarsi, nelle loro operazioni, alle leggi e agli usi di guerra".
«Questi princìpi erano stati già applicati durante la guerra, tant'è che gli alleati ottennero dalla Germania il trattamento di legittimi combattenti alle formazioni della "Francia Libera" del generale De Gaulle, nonostante la resa dello Stato francese».
«L'impugnata sentenza tratta in un modo troppo semplicistico il problema della belligeranza, considerando l'organizzazione militare della Repubblica Sociale Italiana come "rivolta alla ribellione contro lo Stato legittimo, e quindi non aventi alcun valore le norme, gli ordini, i vincoli di subordinazione e i poteri gerarchici da essa emanati".
«Pertanto, rifacendosi solo al diritto interno, negando la caratteristica di governo di fatto alla Repubblica Sociale Italiana, che perfino il Pubblico Ministero aveva riconosciuto con serena obiettività e profondità di argomentazioni - pur non traendone le necessarie conseguenze - ha finito col non ritenere la belligeranza degli avversari, per potere, in prosieguo di motivazione, trattare soltanto da ribelli i combattenti della Repubblica suddetta, ed escludere, quindi, le fondamentali discriminanti dell'adempimento del dovere e dello stato di necessità di cui si dirà in seguito».
«In tal modo, disavvenendo a tutte le norme in materia, si perpetua una particolare valutazione dei fatti che, se era spiegabile nei primi dolorosi anni del dopoguerra, oggi non può essere consentita, nel clima dell'auspicata pacificazione e delle sopite passioni politiche, e nell'austera applicazione del puro diritto».

Carattere di non belligeranza dei partigiani

«Il giudice di merito ha, invece attribuito ai partigiani le qualità belligeranti, con una peregrina interpretazione delle disposizioni vigenti».
«Sotto il profilo etico deve subito rilevarsi che tale qualifica non può togliere ai partigiani quell'aureola di eroismo di cui molti si circondarono, ben conoscendo che da belligeranti non potevano essere trattati, ed essendo certi che l'avversario - appunto per difetto di tale loro qualità - li avrebbe spietatamente perseguiti. Infatti, i combattenti delle truppe regolari italiane, se fatti prigionieri, non subivano le repressioni dei plotoni d'esecuzione; le subivano, invece, i partigiani che non potevano farsi usbergo della qualifica suddetta».
«L'impugnata sentenza, si è richiamata alla citata Convenzione di Ginevra, quando si è trattato di qualificare belligeranti i partigiani, dando un'interpretazione arbitraria alle norme surriferite».
«Al riguardo non vale argomentare che i partigiani fiancheggiavano le truppe regolari italiane, e che facevano capo ai comandi italiani e alleati, per poi dedurne che avevano dei capi responsabili; è necessario, invece, per risolvere la questione, riferirsi esclusivamente alle formazioni partigiane, considerate per se stesse, per quelle che erano e per il modo con cui si manifestarono, senza risalire ai comandanti superiori delle Forze Armate, ben noti e riconosciuti sotto il loro vero nome».
«All'uopo si osserva: 1) i belligeranti devono avere a capo una persona responsabile per i propri subordinati. Non si comprende come il concetto di responsabilità possa conciliarsi con quello di clandestinità, per cui i capi del movimento partigiano, per non farsi riconoscere, per non essere identificati e traditi, e correre l'immediato rischio di morte, si nascondevano sotto pseudonimi, eliminando, per tal modo, quanto meno le responsabilità di ordine immediato».
«Non si può dalla pratica verificatasi in guerra, per cui talvolta i capi delle forze avversarie si incontravano per venire a patti, dedurre senz'altro una inesistente giuridica responsabilità dei capi partigiani, che, era invece, accuratamente evitata».
«2) I belligeranti devono avere un segno distintivo fisso, riconoscibile a distanza. Qui la sentenza è del tutto generica, poiché si limita a citare due montanari che furono denunciati perché avevano un fazzoletto verde; essa poi accenna, genericamente, a quanto ebbe a riferire il teste - on. Ezio Moscatelli - e infine dichiara, per scienza propria e contrariamente ad ogni norma processuale, constare al Collegio che la formazione del Veneto e del Mortarolo portavano i richiesti distintivi di belligeranza».
«Tali distintivi devono essere fissi e riconoscibili a distanza. Questo doveva dimostrare il giudice di merito e non l'ha fatto».
«La nostra legge di guerra, approvata con Regio Decreto 8 luglio 1938 n. 1415, dispone all'articolo 25, in armonia con le convenzioni internazionali, che i legittimi belligeranti debbono indossare un'uniforme od essere muniti di distintivo fisso comune a tutti e riconoscibile a distanza».
«La sentenza non ha affatto dimostrato - e non lo poteva - che esistesse un distintivo fisso di tal genere, comune a tutti i partigiani e riconoscibile a distanza, sostitutivo, in altri termini, della uniforme».
«La lotta clandestina, condotta dai partigiani senza dar quartiere e senza riceverne, imponeva dei metodi e degli accorgimenti che contrastavano coi segni di riconoscimento richiesti. Essi, che pur costituirono il nerbo della resistenza e addussero un apporto fondamentale alla definitiva vittoria delle Forze Armate del legittimo Governo italiano, combatterono una guerra singolare e, per certi aspetti, eroica, sacrificandosi e immolandosi per il bene supremo della Patria. I loro atti di guerra non hanno bisogno di essere legittimati attraverso la qualifica della belligeranza; agirono come agirono, perché tra i reparti fascisti e i reparti partigiani regnavano, quanto più, quanto meno, sistemi di combattimento, di guerriglia, che avevano accantonato, come si vedrà in seguito, le fondamentali norme del Codice penale militare di guerra. La loro opera deve essere apprezzata e riconosciuta, per quanto essi fecero nell'interesse del Paese, salvo la punibilità delle azioni delittuose eventualmente compiute».
«3) I belligeranti devono portare apertamente le armi. La stessa sentenza riconosce che non sempre ciò era possibile, poiché tale requisito deve essere considerato alla luce della tecnica particolare della guerra partigiana».
«4) Infine, i belligeranti debbono attenersi alle leggi e agli usi di guerra, sul qual punto il giudice di merito non ha fornito che vaghe indicazioni; ma di questo si dirà meglio in seguito».
«Pertanto deve concludersi che i partigiani, equiparati ai militari, ma non assoggettati alla legge penale militare, per lo espresso disposto dell'articolo 1 del decreto legge 6 settembre 1946 n. 93, non possono essere considerati belligeranti, non ricorrendo nei loro confronti le condizioni che le norme di diritto internazionale cumulativamente richiedono».
«Il magistrato ha un vasto campo di valutazione, quello concernente il dolo che, in tema di collaborazione propone il quesito seguente: il giudicabile ha inteso di collaborare all'invasione del tedesco, ha voluto effettivamente tale invasione, o ha ritenuto di agire per una sia pure errata visione del bene e del divenire della Patria? Tale quesito, in altri termini ne pone un altro: è possibile, nonostante la proclamata figura giuridica del "tedesco invasore", ammettere una volontà di collaborazione non rivolta all'evento invasione, ma volta invece al "divenire della Patria"? È possibile pensare che l'agente, lungi dal ritenere la sua opera collaboratrice intesa a favorire l'invasione, abbia, in buona fede, creduto che la Repubblica Sociale Italiana si avvalesse delle forze tedesche per fronteggiare lo stesso nemico (gli alleati), ma non certo per agevolare il tedesco nei suoi piani militari e politici ai danni dell'Italia».
"La storia dirà un giorno - e la cronaca già si sofferma su questo punto - se i gerarchi della Repubblica Sociale Italiana si opposero, con i mezzi a loro disposizione, ai piani del tedesco, e se mirarono - sia pure ponendosi contro il Governo legittimo - al solo bene dell'Italia, quale essi lo ritennero".
«Certo è che, nella disamina delle responsabilità occorre avere presenti i proposti quesiti in tema di dolo, al fine di accertare quale fu il movente e quale lo scopo per cui si attuò, nei singoli casi, la collaborazione».
«La Suprema Corte di Cassazione, dopo una prima rigorosa giurisprudenza, che risentiva del clima in cui ebbe a formarsi, ha sin dal primo semestre del 1947, discusso e ammesso la possibilità, nella soggetta materia, delle discriminanti dell'adempimento del dovere e dello stato di necessità».
«Per lo contrario l'impugnata sentenza ha, con criterio unilaterale, come si è superiormente rilevato, ritenuto che la organizzazione militare della Repubblica Sociale Italiana, era rivolta alla ribellione contro lo Stato legittimo, donde nessun valore poteva attribuirsi alle norme, agli ordini, ai vincoli di subordinazione e ai poteri gerarchici che da essa promanavano. All'uopo la sentenza ricorda che, secondo la legge sulle sanzioni contro il fascismo, deve parlarsi di "sedicente Repubblica Sociale Italiana" e che tale appellativo è sintomatico per la soluzione della questione».
«Deve, in proposito, rilevarsi che il termine "sedicente" intende contrapporre tale Repubblica dello Stato italiano legittimo; essa fu solo "sedicente", perché non ebbe il pieno riconoscimento internazionale, né si sostituì allo Stato legittimo».
«Queste locuzioni "Stato di diritto", "Stato legittimo", non rispondono pienamente alla terminologia del linguaggio tecnico-giuridico, ma sono utilmente adottate per significare che non si tratta di uno Stato di fatto (altra locuzione praticamente utile), ma dell'unico, vero, legittimo Stato. Con tali argomenti il giudice di merito ha posto il veto e ha risolto ogni premessa per la discussione e l'ammissibilità delle discriminanti parole. È mai possibile che, in tal modo, siano annullati i princìpi posti dal Codice penale e dai Codici penali militari, da ogni legislazione civile, dichiarando in blocco inapplicabili tali cause di esclusione?».
«In definitiva, quando la resistenza e l'insurrezione armata assume, in grande stile, forme di organismo militare vero e proprio, quando non si tratta di una ribellione di pochi, ma di imponenti masse, è ovvio che, nei limiti consentiti e in omaggio alle esigenze dell'umanità i governi di fatto non possono essere trattati senz'altro come governi aventi giurisdizione su un'accolita di ribelli e di fuori legge; ché altrimenti, accertata l'originaria e libera volontà di porsi agli ordini della Repubblica Sociale Italiana, risulterebbe imponente il numero dei colpevoli di collaborazionismo, sia pure beneficiati di amnistia; in questa ipotesi la delinquenza politica si sarebbe palesata come generalità di vita vissuta da centinaia di migliaia di uomini e non come eccezione; il che non può essere, perché è l'eccezione che delinque e non la generalità».
«D'altronde, come può oggi parlarsi più di una accozzaglia di ribelli, quando la Convenzione di Ginevra ha inteso proprio tutelare i movimenti di resistenza organizzata, come sopra è detto?».
«Più che dall'essere la Repubblica Sociale Italiana un Governo di fatto, le discriminanti in questione traggono origine dalla riconosciuta qualità di belligeranti ai combattenti della Repubblica suddetta. Si comprende che, negata loro tale qualità, ne deriva ch'essi fossero un'accozzaglia di ribelli, di traditori e di banditi, nonostante che imponente fosse il numero dei reparti, degli ufficiali, dei decorati che non vollero deporre le armi; ammessa, invece, tale qualifica nell'indiscutibile spirito delle Convenzioni internazionali dell'Aja e di Ginevra, il problema delle cause discriminanti può e deve senz'altro essere posto e risolto».
«Lo Stato italiano punisce i suoi sudditi, per l'opera collaborazionistica col tedesco invasore, ma nel contempo è innegabile, per le cose dette che occorre tenere presente l'inquadratura militare della Repubblica Sociale Italiana, delle gerarchie costituite, degli ordini emanati e della legge militare colà imperante (quella italiana); né può da un lato riconoscersi la belligeranza e da un altro negarsi l'esistenza di un ordinamento militare, fondato sull'obbedienza e sulla disciplina militare».
«...Ciò premesso, per la serena valutazione dei fatti occorre fissare il punto di partenza, che nella sfera dell'ordine psicologico, prende le mosse dell'armistizio dell'8 settembre 1943. Si è rilevato che, inizialmente, una parte delle Forze Armate italiane non volle accettare l'armistizio e proseguì nelle ostilità contro il nemico della guerra sino allora combattuta, intendendo mantenere fede all'alleato tedesco; le armi italiane non furono inizialmente rivolte contro i propri fratelli, e se scontri inizialmente vi furono tra reparti italiani e reparti italiani, più che altro si verificarono per la fatalità delle circostanze».
«I reparti che avevano seguito l'ordine del Governo legittimo pensarono soprattutto a fronteggiare il tedesco invasore, e, purtroppo, avvenne l'inevitabile, per cui si trovarono di fronte figli della stessa grande Madre. In quei giorni nefasti il potere regio era pressoché annullato, e solo formalmente esisteva, come si è dianzi rilevato, la sovranità italiana. L'esercito era disperso e infranto, gli alleati apparivano vittoriosi, tutto cadeva in rovina e grande era il disorientamento delle coscienze. In tale confusione, nella carenza dei poteri costituzionali, il soldato, l'ufficiale italiano fu chiamato a risolvere il tragico quesito, se mantenere fede all'alleato o ubbidire al Governo del re».
«Quando si afferma la tesi della libera determinazione dei singoli nella scelta del fronte, si dimentica la tragica situazione cui si è fatto segno, si oblia che la guerra fraterna non fu inizialmente voluta, ma fatalmente sorse dalla disfatta, che, comunque, tutti gli italiani, salvo pochi, amarono di sconfinato amore la loro Patria, anche errando; che, se si può parlare di collaborazionismo e di tradimento nel senso giuridico, non si può certo affermare che le centinaia di migliaia di soldati, che rimasero al nord a combattere contro gli alleati e le truppe regie, fossero un'accozzaglia di traditori. Accettare e consacrare alla storia una tesi simile, significherebbe degradare la nostra razza, annullare il retaggio di gloria e di valore che ci lasciarono coloro che nella guerra immolarono la vita, creare al cospetto delle altre nazioni una leggenda che non torna ad onore del popolo italiano».
«Ricostruita così la verità storica degli avvenimenti, non deve da tale ricostruzione trarsi la stolida illazione che non vi siano colpevoli, poiché non v'ha dubbio che debbono essere inesorabilmente colpiti coloro che agirono in mala fede, eccedettero in faziosità, compirono azioni delittuose, crudeltà efferate ed innominabili sevizie».
«Tutta l'antecedente esposizione deve servire solo ad obiettare e a serenamente apprezzare i fatti, a non porre senz'altro le premesse di una ribellione, libera nella determinazione e totalitaria nei delittuosi scopi, per cui si giunga inesorabilmente a colpire quanto non è giusto colpire, e si perpetuino i rancori, gli antagonismi, le inimicizie, allontanando la auspicata pacificazione, che non può essere attuata se non nel clima di una tranquillante giustizia».
«L'impugnata sentenza ha ritenuto che l'errore di fatto in cui possono essere caduti taluni imputati, nel ritenere legittimi gli ordini provenienti dagli organi della Repubblica Sociale Italiana, sia inescusabile, in quanto l'illegittimità di tale organismo è elemento di norme penali che quella illegittimità sanciscono. Ciò non è esatto, perché il dolo domina tutti gli estremi del reato, e alla sua ricerca non si sottrae neppure l'estremo della illegittimità».
«Ma v'ha di più! La tesi del giudice di merito non può essere accolta. Una volta riconosciuto che la Repubblica Sociale Italiana costituiva un governo di fatto e che i suoi combattenti dovevano essere considerati belligeranti, ne consegue che gli ordini impartiti dai superiori ai loro subordinati dovevano essere eseguiti. Non può far velo alla soluzione del quesito, che è di ordine strettamente giuridico, il carattere insurrezionale del Governo suddetto, per trarne l'illazione generica della illegittimità di tali ordini».
«La legittimità o l'integrità non è in funzione della insurrezione, della ribellione al potere regio, ma va posta in relazione all'organizzazione politica e militare che si era costituita con il suo ordinamento giuridico, con le sue leggi, con le sue autorità».
Se lo sbandamento delle coscienze e la fatalità degli eventi portò molti combattenti nei quadri militari della Repubblica Sociale italiana, non è esatto parlare a priori, di illegittimità degli ordini, e tanto meno escludere le discriminanti putative, se per giustificabile errore, i soggetti ritennero di adempiere al loro dovere e di agire nello stato di necessità (Art. 59, Ultimo Comma, Codice Penale)».


Onore ai combattenti della R.S.I
Onore al Duce
Onore ai caduti per la causa fascista, in questo tragico giorno io li ricordo cosi, sottolineando la loro qualifica di combattenti contro le menzogne e le falsità storiche perpetrate da piu di 64 anni agli Italiani.
 
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